Cronaca / Valchiavenna
Domenica 10 Luglio 2016
Il racconto di Moro: «La mia grande sfida
sul Nanga Parbat »
Ospite venerdì della Skyrace di Campodolcino. Il famoso alpinista svela i retroscena della sua impresa. «Scalare una cima è da molti, farlo in inverno da pochi».
La Sky Race del Pizzo Stella come il Nanga Parbat in invernale. Se non ti sei preparato non cimentarti nemmeno. Ovviamente non sono paragonabili l’incredibile impresa dello scorso inverno compiuta da Simone Moro e la gara in programma oggi. Un filo rosso, però, Moro, ospite dell’associazione Amici di Fraciscio venerdì sera al palazzetto di Campodolcino, l’ha trovato.
Quello della preparazione, della costanza e della tenacia necessaria a superare sfide che, comunque, si pongono al limite delle proprie possibilità personali. Moro ha intrattenuto per due ore mozzafiato il foltissimo pubblico accorso. Di storie da raccontare ne aveva tante.
Alpinisticamente è il personaggio del momento. Il 49enne bergamasco non è partito dal Nanga Parbat, ma dalla sua salita con il grande Denis Urubko e con Cory Richards del Gasherbrum II nel 2011. Un filmato di 17 minuti intitolato “Cold” ha fatto capire a tutti cosa vuol dire salire un ottomila in invernale: «Le finestre di bel tempo sono ridottissime e le giornate molto più corte – ha spiegato Moro - . Non si tratta solo di freddo e vento». Tutto questo al Nanga Parbat è amplificato. «Il Nanga è enorme, basti pensare che è grande 40 volte il massiccio del Monte Bianco. Dal campo base alla vetta c’è un dislivello due volte superiore a quello dell’Everest. Condizioni estreme, che hanno fatto fallire nell’impresa invernale generazioni di fortissimi alpinisti. La “montagna killer”, definizione che a Moro non piace.
Una montagna mitica. Le imprese di Hermann Buhl e dei fratelli Messner rimangono nella storia. Moro si è addentrato nel racconto, a partire dalla scelta di scalare con la forte altoatesina Tamara Lunger. Due mesi di tentativi lungo la via Messner del versante Diamir prima di arrendersi al maltempo e cambiare strategia. Sulla loro strada i due hanno trovato un altro gruppo. Quello composto da Daniele Nardi, dallo spagnolo Alex Txicon e dal pakistano Ali Sadpara. Un gruppo destinato a sfaldarsi con furibonde polemiche di Nardi nei confronti degli altri due e, quindi, a saldarsi con il duo italiano. Sempre dal versante Diamir i quattro sono saliti lungo la via “normale”, la Kinshofer: «Ma io e Tamara – ha spiegato Moro – eravamo riusciti a dormire al massimo a 5800 metri di quota, mentre i nostri compagni erano già acclimatati molto più in alto». Alla fine è stato lo stesso Moro a delineare la strategia che, tra freddo estremo costantemente attorno ai -50 gradi, vento e pericoli, ha consentito ai quattro di arrivare in una finestra di bel tempo di cinque giorni, all’ultimo campo: «Era ancora giorno e i miei compagni volevano salire a installarlo fino a 7600 metri. Io ho suggerito di farlo più in basso per migliorare l’acclimatamento. Mentre Ali e Alex volevano partire per la vetta a mezzanotte, ho suggerito di aspettare le sei del mattino evitando di camminare 10 ore senza sole. Era tardi, ma alla fine si è dimostrata la mossa vincente». L’ultimo giorno è drammatico, soprattutto per la debilitata Tamara Lunger. Arrivata a 70 metri di dislivello dagli 8125 metri della cima mi ha detto che anche se fosse arrivata in cima avremmo dovuto aiutarla a scendere. Cosa che avrebbe messo a rischio anche noi, visto che eravamo ormai al limite tutti. La sua decisione di fermarsi e tornare indietro è stata un atto di grande coraggio. Per questo dico che il Nanga Parbat l’abbiamo scalato in quattro, anche se gli annali diranno qualcosa di diverso».
Una scelta conservativa a poco dal grande traguardo, perché come dice sempre il grande Ed Viesturs “raggiungere la cima è facoltativo, tornare indietro è obbligatorio”. Arrivato in vetta insieme ai due compagni, Moro si è fermato giusto per qualche foto e per guardare dall’alto la parete Rupal, la più alta parete della terra aperta da Reinhold Messner nella drammatica impresa del 1970 costata la vita al fratello del grande alpinista di Bressanone. Quindi il rientro. Ormai al buio. «Temevo di non trovare più la tenda, quando all’improvviso Tamara ha acceso la luce all’interno. Altrimenti ce la saremmo vista brutta». Moro ha concluso regalando al pubblico la sua filosofia di vita: «Possiamo vedere la vita come un susseguirsi di tramonti o come un susseguirsi di albe. Io ho scelto quest’ultimo modo. Preferisco l’alba, quando dopo un periodo di oscurità torna la luce».
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