«Questi gioielli meritano di rimanere ad Ambria»

«Ci piacerebbe che alcuni di questi massi possano essere posizionati ad Ambria affinché qualcosa rimanga sul territorio a testimonianza del nostro passato e possa favorire quella forma di turismo lento verso cui siamo propensi e per il quale stiamo lavorando».

Parla il sindaco di Piateda, Simone Marchesini, che commenta con piacere la scoperta - presentata mercoledì 13 novembre al Museo di storia naturale di Milano - dell’ecosistema fossilizzato sulle lastre di arenaria della Val d’Ambria, dove per 280 milioni di anni sono rimasti impressi dettagli eccezionali: impronte di dita sottili, scie lasciate da lunghe code, increspature di antiche onde lacustri e, persino, gocce di pioggia cadute sul fango prima che si pietrificasse nelle Alpi Orobie valtellinesi.

«È una bellissima notizia, sapevamo che erano in corso queste ricerche e ringraziamo Claudia Steffensen che, per prima, ha riconosciuto queste tracce dove, magari, tante volte si era passati senza capire – prosegue Marchesini -. L’escursionista di Lovero ha coinvolto  Elio Della Ferrera, fotografo naturalista, e questi, a sua volta, gli esperti di musei e università. È un grande passo per valorizzare un territorio e una comunità come quella di Ambria, da sempre molto attiva e attenta». I ritrovamenti, che si collocano nella zona a cavallo della Gran Via delle Orobie che passa a 1900-2000 metri di quota sotto il Pizzo del Diavolo di Tenda, sono più estesi di quelli recuperati. Le impronte sono state impresse quando le arenarie e argilliti erano ancora sabbie e fanghi intrisi di acqua, ai margini di fiumi e laghi che periodicamente, secondo le stagioni, si prosciugavano. Il sole estivo, seccando quelle superfici, le ha indurite al punto tale che il ritorno di nuova acqua non ha cancellato le orme ma, anzi, le ha ricoperte di nuova argilla formando uno strato protettivo. Da qui la meravigliosa conservazione fino ad oggi. La speranza del sindaco è che si trovino i finanziamenti per poter proseguire con studi specifici e che «qualcosa possa rimanere ad Ambria – aggiunge -. So che alcuni reperti saranno portati al Museo di Milano e altri a quello di Morbegno».

E, in fatto di turismo slow, Marchesini non ha dubbi: «Questa zona delle Orobie è la più bella dal punto di vista morfologico, dal Diavolo di Tenda fino al Pizzo del Diavolo e Malgina, un areale importante dal punto di vista montano – spiega -. Vi sono residui di nevaio come segno di resistenza al cambiamento climatico. Ma oltre al valore dal punto di vista paesaggistico, si trovano particolarità floristiche ed essenze autoctone, ad esempio la sanguisorba. Mi piace ricordare anche le attività sviluppate e conservate negli ultimi secoli come gli alpeggi, una cultura che ha circa 700 anni e che viene seguita in maniera quasi eroica anche oggi senza mezzi meccanici oppure la storia della coltivazione del ferro analizzata con il progetto “Radici di un’identità”. E, ancora, la narrazione dell’alpinismo di fine Ottocento-inizio Novecento con guide come Giovanni Bonomi, tant’è che l’anno prossimo festeggeremo il centenario del rifugio Mambretti, collocato in una valle parallela a quella d’Ambria, che è il rifugio più vecchio delle Orobie. Per venire al passato più recente con le testimonianze dell’idroelettrico e, anche in questo caso, nel 2026 celebreremo il centenario della diga del Venina, un unicum dal punto di vista ingegneristico».

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