Quasimodo a Sondrio. Tracce di un poeta “in esilio”

Tracce di Salvatore Quasimodo, ormai sbiadite dal tempo, nella Sondrio degli anni Trenta, grazie anche a qualche ricordo di famiglia.

Il grande poeta italiano (1901-1968), premio Nobel per la letteratura nel 1959, lavorò infatti nel capoluogo come impiegato al Genio Civile, presumibilmente dal 1934 al 1938. Aveva ottenuto il trasferimento dalla sede di Cagliari a Milano, ma venne destinato a Sondrio, probabilmente dopo un litigio con un superiore.

Al tempo aveva già pubblicato le prime due raccolte di poesie, “Acque e Terre” (Firenze, 1930) ed “Oboe Sommerso” (Genova,1932). Durante il periodo trascorso in Valtellina diede alle stampe anche “Erato ed Apollion” (1936), a Milano per Scheiwiller. Nel 1938 lascia il Genio Civile per dedicarsi interamente alla poesia, affianca Cesare Zavattini in un’impresa editoriale, collabora con la rivista Letteratura e pubblica nel 1942 a Milano da Arnoldo Mondadori la raccolta più famosa, “Ed è subito sera” che comprendeva poesie scritte tra il 1936 e il 1942. La Valtellina è un ricordo lontano, ma forse un frammento rimane, come vedremo.

Il trentenne Quasimodo mal sopportava l’isolamento di Sondrio che aveva visto come una punizione, si sentiva come in carcere e, appena poteva, prendeva il treno e si recava a Milano “per non rubare un giorno alla vita”, come confidava a pochi amici. E, con ogni probabilità, per incontrare Sibilla Aleramo, con cui ebbe una lunga storia d’amore.

Ospite occasionale a Postalesio della locanda gestita dalla “sciura Teresa” Albertazzi (nonna dell’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, dell’avvocato Umberto e di Teresa Stagnati, ex insegnante che ci ha aiutato nella ricostruzione, ndr ), riusciva a commentare in modo poetico anche il cibo: “Questo pollo manca di tenerezza”. Modo elegante per mascherare lo scarso gradimento.

Sono aneddoti raccontati da mia nonna Ester Valmadre (1909-1996), ai tempi insegnante elementare a Postalesio che lo aveva incontrato proprio in questa locanda dove lei soggiornava per lavoro ed era rimasta colpita dal fare signorile di quella persona così distinta che parlava in un linguaggio forbito, merce rara a quei tempi in Valtellina. Ovviamente, nessuno, tantomeno mia nonna, a quel tempo sapeva che si trattasse di un grande poeta. Malgrado avesse definito la Valtellina, senza mezzi termini “una landa silenziosa, lugubre e immersa nel ghiaccio”, la valle è presente in una delle liriche di Quasimodo, inserita nella raccolta “E’ subito sera” del 1942, ma quasi sicuramente scritta qui da noi. “La dolce collina” cita Ardenno e l’Adda ed è un componimento ispirato dal paesaggio sopra il paese, “dove s’ode il nibbio sui ventagli di saggina” e forse anche da una donna di cui si innamorò all’epoca. Potrebbe anche essere stata ispirata da una gita nel settembre 1935 a Morbegno del poeta che voleva vedere il paese dove l’amata Sibilla aveva avuto una relazione giovanile con il collega Guglielmo Felice Damiani, morto nemmeno trentenne a Napoli.

Ma, si sa, la poesia, particolarmente quella dell’ermetico Quasimodo, si presta sempre ad una serie di interpretazioni. Lontani uccelli aperti nella sera tremano sul fiume. E la pioggia insiste e il sibilo dei pioppi illuminati dal vento. Come ogni cosa remota ritorni nella mente. Il verde lieve della tua veste è qui fra le piante arse dai fulmini dove s’innalza la dolce collina d’Ardenno e s’ode il nibbio sui ventagli di saggina. Forse in quel volo a spirali serrate s’affidava il mio deluso ritorno, l’asprezza, la vinta pietà cristiana, e questa pena nuda di dolore. Hai un fiore di corallo sui capelli. Ma il tuo viso è un’ombra che non muta; (così fa morte). Dalle scure case del tuo borgo ascolto l’Adda e la pioggia, o forse un fremere di passi umani, fra le tenere canne delle rive. (La dolce collina)

Nel 1935 Quasimodo fu anche a Chiavenna. Scriveva in una lettera all’Aleramo datata 23 maggio, firmandosi poeticamente “Virgilio”: «Ieri sono stato a Chiavenna. Pioveva. Grandi monti e il verde velato mi hanno dato più malinconia di quella che mi possiede sempre, e non solo per abitudine». Qualcosa, però, doveva avere apprezzato anche nella sua giornata uggiosa: «Ma in quei luoghi, sul lago di Verceia voglio ritornare con te quest’estate. Caro paradiso della terra!» concludeva.

A Sondrio abitava anche il fratello Ettore (1903-1968), ragioniere e impiegato pure lui. Era dirimpettaio dei miei nonni, nell’attuale palazzo del Credito Valtellinese (oggi Credit Agricole) che si affaccia su piazza Campello. Mio zio Giorgio Valenti (1938-2022) che, a quei tempi, stava imparando a leggere, interpretava così la targhetta apposta sulla porta: “Ragettòre Quasimòdo” con l’accento sulla o, senza sapere che quella era proprio la dizione corretta. Quasìmodo era uno spostamento che il poeta aveva voluto per vezzo artistico, forse per assonanza “greca” con Esìodo.

Il figlio di Salvatore, Alessandro (1939), attore, è stato poi molti anni dopo a Sondrio a recitare in teatro, nel 1992, ma preferiva farsi passare per nipote. Salvatore aveva sposato nel 1948 la madre Maria Cumani, danzatrice e attrice, donna colta che lo aveva aiutato nella traduzione dei lirici greci e di Neruda, per poi separarsene nel 1960. Il figlio Alessandro restò con la madre e poi ha curato recentemente il libro “Il fuoco tra le dita” (Aletti, 2017) che raccoglie poesie, racconti, saggi e pagine di diario di Maria, personaggio quantomai interessante.

Da Sondrio a Postalesio, da Ardenno a Morbegno e Chiavenna, la nostra provincia ben si presta ad un breve itinerario storico-culturale sulle orme di Salvatore Quasimodo, uno dei poeti più importanti che il Novecento italiano abbia avuto. Malgrado il “male di vivere” in mezzo a queste montagne provato dal letterato-impiegato, c’è da pensare che la Valtellina abbia comunque lasciato una traccia nella sua esistenza errabonda.

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