Cronaca / Sondrio e cintura
Venerdì 28 Maggio 2021
«Ne abbiamo viste troppe
L’unica strada è il vaccino»
Intervista all’infettivologa Patrizia Zucchi
Stanca, sì. Glielo si legge negli occhi che fanno capolino dalla mascherina. Ma con tanta consapevolezza, conoscenza, competenza in più, in termini di lotta al Covid.
Un “know how” importantissimo, che, Patrizia Zucchi, infettivologa di Asst Valtellina e Alto Lario, da mesi in servizio nei reparti Covid del Morelli, con la collega e responsabile Chiara Rebucci, non esita, se sollecitata, a mettere a disposizione dei più. Per meglio capire, cosa è necessario, ora, fare, per tenere a bada qualsiasi rigurgito di infezione.
La pressione ospedaliera si sta riducendo, di giorno in giorno, tant’è che, anche qui, al padiglione 1, dove ci troviamo, i reparti Covid sono scesi da quattro a due. Ora, dottoressa, gli sforzi sono concentrati sulla campagna vaccinale. Cosa si sente di dire alle persone che hanno paura del vaccino, oppure, che, non vogliono proprio sottoporsi?
La paura è un sentimento naturale, che va sempre accolto e ascoltato. Per cui chi si trova a vaccinare le persone che manifestano delle perplessità, non deve stigmatizzarle, ma fornire rassicurazioni fattuali. Ciò che, sono sicura, viene fatto. Anche perché non c’è soluzione di continuità fra chi propone il vaccino e chi vi si sottopone. Siamo insieme in questo processo. Tutta l’umanità dentro lo stesso calderone, tutti protesi a riconquistare un po’ di serenità, di libertà, di normalità. E’ l’interesse collettivo a spingere per la massima trasparenza possibile in tema di vaccini.
Tuttavia, dottoressa, dubbi e timori, permangono, soprattutto rispetto al vaccino più nel mirino, AstraZeneca, ma, non solo. Perché?
I dubbi sono frutto anche di una comunicazione sbagliata sui vaccini, precedente, invero, l’epoca Covid, ma enfatizzatasi in questo periodo. In particolare è stato messo sotto accusa il percorso di attivazione dei vaccini anti Covid, letto come accorciato, diverso, insicuro, rispetto allo standard, quando in realtà si sono solo concentrate le fasi di sviluppo in un tempo corto. Ma tutti i passaggi sono stati rispettati per filo e per segno e la quantità di dati necessari a completare il processo di approvazione è integrale. E, aggiungo, ad oggi in seguito alla somministrazione già avvenuta di 1,5 miliardi di dosi in tutto il mondo, non è accaduto niente di eclatante, di inatteso, di misterioso, di strano.
Quindi, vale la pena di vaccinarsi in tranquillità?
Certo, perché, ripeto, reazioni misteriose non ce le dobbiamo aspettare né nel breve, né nel medio, né tantomeno nel lungo periodo. Del resto quando ci si vaccina, si fa un piccolo atto di fiducia che, come tutti gli atti di fiducia, comporta un suo certo rischio per il semplice fatto che, il “rischio zero”, non esiste. Ma è importante leggere l’atto come corale con un contenuto positivo per la propria salute, ma anche come via d’uscita obbligata da una situazione emergenziale.
E’ questa, quindi, l’unica strada percorribile?
Sì, ad oggi, sì. Anche perché sul piano della cura vera e propria non ci sono novità eclatanti. Non abbiamo nuovi antivirali e non abbiamo nuovi farmaci immunomodulanti. Semmai possiamo contare sugli anticorpi monoclonali, utili nelle fasi di esordio della positività, quale concentrato di difese che assicuriamo a persone positive, asintomatiche, ma con grave rischio di contrarre la malattia in modo serio. Tutto il resto è terapia di supporto per ridurre le complicanze, cioè somministrazione di ossigeno al bisogno e contenimento della malattia nella sua prima fase. Perché approdare alla seconda, caratterizzata da un forte processo infiammatorio a carico dei polmoni, significa rischiare un pericoloso aggravamento che contrastiamo con i cortisonici. Situazioni in cui sempre più, attualmente, incorrono persone giovani, da noi ricoverate e che, inaspettatamente, finiscono anche in Terapia intensiva. E poi non dimentichiamoci l’importanza della vaccinazione come arma contro la mutazione del virus e la nascita di nuove varianti.
In che senso dottoressa?
Il punto è che più il virus circola, più muta. E’ un processo naturale. Oggi noi conosciamo tante mutazioni perché sono state studiate ed approfondite, ma chissà quante altre ne sono circolate durante la prima ondata pandemica, quando questi approfondimenti non erano ancora avviati... Ebbene, la continua mutazione in varianti si può controllare ed arrestare solo riducendo al massimo la circolazione del virus.
E questo lo si può fare solo vaccinandosi tutti e in tutto il mondo.
Tutti significa che non basta raggiungere la, cosiddetta, immunità di gregge?
L’immunità di gregge è importante perché abbiamo visto che in paesi in cui, come Israele, si è raggiunta una copertura del 65% della popolazione vaccinata, la curva dei ricoveri e delle infezioni sintomatiche si è fermata. Però ricordiamoci sempre che fra i non vaccinati, coloro che non si sono mai ammalati potrebbero ancora ammalarsi, e coloro che si sono già ammalati posseggono, di norma, una protezione naturale inferiore a quella garantita dal vaccino. Ma c’è quell’aspetto di cui abbiamo già detto, fondamentale da tenere presente, cioè il fatto che più siamo vaccinati meno virus circola e meno varianti si producono. Perché, attenzione: ad oggi sembra che i vaccini in distribuzione proteggano anche dalle varianti individuate, ma non possiamo escludere che, più avanti, ulteriori mutazioni possano prodursi, altamente sfidanti, anche per i vaccini attuali.
Dottoressa, avete mai ricoverato persone che non hanno voluto vaccinarsi?
Sì. Ed è sempre un dolore, per noi. Una sconfitta, perché non siamo stati capaci, come operatori, come società, di trasmettere un messaggio importante. Abbiamo avuto ad esempio anziani con figli contrari al vaccino, ma anche altre persone. E ricordo che anche quando si supera la malattia e si lascia l’ospedale, il fardello che ci si porta appresso è pesante. Lo sanno tutti coloro che sono stati ricoverati da noi. Lo sappiamo noi, operatori, quanto e cosa abbiamo visto, in un anno e mezzo, in tutti questi piani del padiglione 1. Una quantità di dolore e sofferenza, reale, enorme, che non deve essere più vissuta da nessuno. E poi una quantità di sofferenza cui noi non abbiamo ancora guardato, come società, che è quella vissuta all’esterno degli ospedali, dalle persone richiuse, bambini, giovani, anziani, in situazioni di pericolo e di abbandono. L’unico modo per uscirne è darci la possibilità di avere un po’ di immunità.
E’ un’immunità, comunque, sufficiente a non farci ammalare e a non renderci contagiosi?
La protezione rispetto alla malattia è alta poi, ovvio, il vaccino non tappa le narici. Se da vaccinati entriamo nella stanza di una persona ammalata per assisterla, senza protezioni, il virus lo contraiamo lo stesso, però, la risposta immunitaria è tale che ce ne liberiamo anche subito. E’ provato che chi si infetta da Covid per la prima volta, resta positivo a lungo, mentre chi contrae il virus da vaccinato, rimane positivo per un tempo brevissimo. Quindi, possiamo dire che non ci ammaliamo, ma non siamo sicuri di non essere contagiosi. Certamente lo saremo meno in un contesto in cui il virus circola meno, in cui ci sono più persone vaccinate.
E’ verosimile pensare, dottoressa, che, prossimamente, potremo arrivare a fare a meno della mascherina?
Sì, credo di sì, all’esterno dove, probabilmente, il virus è meno efficace e in presenza di una buona copertura vaccinale. Certo, vale sempre la regola del buon senso nei comportamenti. Una certa distanza interpersonale, resta opportuna.
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