I legali: «Basta con le “favolette”
Quello di Mattia è stato omicidio»

Alla vigilia della nuova udienza parlano gli avvocati dei familiari di Mattia Mingarelli, il giovane morto a Chiesa Valmalenco tre anni fa «Non vogliamo fare il processo a qualcuno, ma chiarire che non si è trattato di un incidente»

«Il nostro obiettivo in questa fase non è quello di fare un processo a qualcuno, ma di chiarire che Mattia Mingarelli non è morto a causa di un incidente, bensì che si è trattato di omicidio, vuoi volontario, vuoi preterintenzionale. Perché alla favoletta priva di riscontro, alla ricostruzione totalmente fantasiosa e suggestiva cui è giunta per la seconda volta la Procura, nessuno crede. Certamente non ci crediamo noi, e non ci credono i familiari di Mattia Mingarelli che rappresentiamo».

A parlare - alla vigilia dell’udienza sull’opposizione alla seconda richiesta di archiviazione - sono gli avvocati Stefania Amato e Paolo Camporini, legali di papà Luca, di mamma Monica, delle sorelle Chiara ed Elisa, cioè dei famigliari stretti di Mattia Mingarelli, 30 anni, di Albavilla, in provincia di Como, scomparso la sera del 7 dicembre del 2018 ai Barchi di Chiesa in Valmalenco e ritrovato cadavere in zona 17 giorni dopo.

La “favoletta”, invece, è quella che vorrebbe il giovane essersi avventurato autonomamente al buio, la sera della sua stessa scomparsa, in un boschetto, in posizione del tutto defilata rispetto alla strada che dal Sasso Nero porta ai Barchi al di la della pista da sci, e in preda all’assunzione di sostanze stupefacenti, essere inciampato, caduto, aver battuto il capo su un sasso ed essere rimasto lì, esanime.

«Parliamo di uno sportivo, alto un metro e 90, del peso di 90 chili e dovremmo immaginarcelo correre lungo il pendio, entrare nel bosco, cadere e rimanere lì, morto, per terra, per 17 giorni senza che nessuno se ne accorga - dicono gli avvocati -. Dopo che gli stessi soccorritori, per giorni, hanno scandagliato la zona. Ci sono le tracce Gps che indicano il loro passaggio a sette metri dall’area del rinvenimento del corpo, senza averlo individuato. E non c’era una coltre di neve tale da poterlo celare. E non c’era neppure un gelo tale da poterlo conservare così come si è conservato, perché il corpo di Mattia, ricordiamolo, è stato rinvenuto intatto. Con, però, delle contusioni sulla parte frontale, segno che è caduto anche in avanti e non solo all’indietro come ipotizzano gli inquirenti. Salvo, poi, soggiungere che le ferite frontali se le sarebbe procurate rotolando a valle, nel bosco».

Insomma, per i legali della famiglia Mingarelli, e non solo per loro, quello del ritrovamento non è il luogo in cui il giovane ha incontrato la morte.

«Lo stesso giudice per le indagini preliminari (Pietro Della Pona, ndr) che aveva rinviato gli atti alla Procura dopo la prima richiesta di archiviazione, il 28 gennaio dello scorso anno - dicono gli avvocati -, aveva parlato di improbabilità della versione della caduta accidentale, dell’irragionevolezza dell’ipotesi accusatoria, della mancanza assoluta del presupposto dello stato di alterazione psicofisica della vittima al momento del fatto, non comprovato neppure dagli esami autoptici, perché risulta aver fumato un solo spinello, aveva 0,3 grammi di marijuana nel grinder e, il livello del metabolita trovato nel sangue era da ricondurre ad assunzioni effettuate nei giorni precedenti».

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