“Ah, la brava Sonia! Però che pozzo si son saputi scavare! E ne approfittano! Come ne approfittano! E vi si sono abituati. Han pianto un poco, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco ch’è l’uomo”.
In un passaggio memorabile di “Delitto e castigo”, Fedor Dostoevskij, magistrale indagatore dei più riposti recessi dell’animo umano e dalla presenza cogente e dominatrice del male nell’esistenza di ognuno di noi, ha segnato un punto cardine, eterno e assoluto, su quello che è l’uomo, quello che è sempre stato e quello che sarà fino a quando andrà avanti a ingombrare con la sua bizzarra presenza i sentieri del mondo.
Non c’è alcuna differenza di latitudine, di longitudine, di epoca storica, razza, cultura, religione, sesso, età, status economico, profilo sociale o culturale e tutto il resto che volete voi, non esiste alcuna differenza tra un uomo dei tempi di Omero e uno dei tempi di Barbara D’Urso, nessuna davvero, per quanto possa apparire incredibile. Perché quando si trova di fronte a un momento decisivo, scatta in lui una atavica, genetica e inesorabile riduzione ad uno, tutta la fuffa viene rimossa, tutto il cascame viene spazzato via, tutte le sovrastrutture psicologiche e comportamentali che si sono sedimentate lungo i secoli, determinando le nostre abitudini, i nostri modi di vivere e di pensare, crollano miseramente a terra. Rimane solo l’uomo. L’uomo così com’è. La sua essenza, la sua natura, le sue pulsioni, i suoi demoni.
Ed è così anche adesso, in queste settimane surreali, paranoiche, a tratti allucinanti, di vita sospesa, di vita separata, praticamente di non vita, durante le quali però ci piace immaginare - sbagliando - che il coronavirus sia destinato a cambiare non solo il nostro modo di vivere, su questo non esiste dubbio alcuno, ma addirittura la natura dell’uomo. Che, una volta passata la buriana, riapparirà dominatore degli elementi, questo sì, ma profondamente mutato, trasformato, evoluto e soprattutto migliorato. Come se ogni tragedia avesse il compito segreto di renderci migliori, rito di passaggio di una continua evoluzione verso il bello, verso il bene, verso il meglio, un essere umano tutto nuovo, lindo e pinto e irrorato da più generosità, più responsabilità, più solidarietà, più maturità. Non è forse questo il mainstream assordante che ci viene propagandato ai quattro venti dalla comunicazione motivazionale, pedagogica e paternalistica che l’unico media collettivo apodittico, indiscutibile e dittatoriale ci propina a ogni ora del giorno e della notte, che se non la piantano un bel giorno qualcuno inizierà a far volar computer, radio e televisori dalla finestra?
E invece non è così. Non è affatto così. Ed è per questo che oggi appaiono profetiche le parole del gigantesco romanziere russo - c’era Dio sopra Dostoevskij mentre scriveva quel brano… - perché in ogni occasione, e quindi anche durante le tragedie planetarie, l’uomo non evolve e non cambia e non si ribella e, soprattutto, non diventa migliore. Non diventa diverso da quello che è dai tempi di Giava e Neanderthal. Lui - noi - piange e si abbatte e si dispera e si sente smarrito e abbandonato, solo, solissimo, l’essere più solo dell’universo. E ha paura. Paura del buio, degli sconosciuti, degli altri, del dolore, della vecchiaia, della fine, del virus. Lui ha paura. Ha paura di tutto. Poi, però, piano piano, giorno dopo giorno, pezzetto dopo pezzetto, convive con i tremori, coesiste con la tragedia, si acconcia alla nuova, per quanto spesso drammatica, situazione, si adatta, cede quarti di sovranità, spazi vitali, diritti fondamentali faticosamente conquistati, principi di libertà e di pensiero autonomo, e continua a rinunciare e si accomoda e si accoccola e si avvoltola nella sua nuova realtà omeostatica, anche se fosse cento volte peggiore di quella precedente. Decide di sopravvivere, a se stesso e agli altri. Si abitua. Eccoci al punto. Lui si abitua. Si abitua a tutto.
Non va all’assalto del nemico con la baionetta in resta. Non diventa un apostolo, un missionario, un eroe pronto a dare la vita per il bene comune. Non si trasforma in uno stilita, uno stoico, un grande saggio atarassico che lascia fluire l’esistenza su di sé cogliendone tutta la vanità. No, lui si arrende. E si abitua a cose che neanche lontanamente avrebbe accettato anche solo un giorno prima. Mascherine, guanti, reclusioni forzate, distanze obbligatorie, isolamenti coatti, diritti individuali calpestati, ansiogeni bollettini di guerra delle sei, elenchi dei caduti e dei salvati, terrorismi psicologici, ronde poliziesche, delazioni occhiute dei vicini di casa degne di un racconto di Sciascia, posti di lavoro scomparsi, nonni svaniti nel nulla e mai più rivisti e tutta la sequela da incubo che abbiamo vissuto in queste ore, che sarebbe sembrata impossibile e che invece adesso, e vedrete fra due mesi, è già diventata normalità, noia, routine. Quel tran tran che a un certo punto in ogni singolo individuo – e in ogni redazione di giornale – segna la morte di una notizia: “Ancora il Covid 19? Uff, che palle…”.
Ma, in fondo, non c’è niente di male. E una rimozione istintiva che ogni essere umano conserva dentro di sé, sanguinosa coscienza che la vita, quale che sia e qualsiasi peste bubbonica la minacci, è l’unica cosa che possiedi, l’unica, e sulla quale sempre “Delitto Castigo” ci ha regalato alcune parole definitive: “Dove ho letto che un condannato a morte, un’ora prima di morire, dice o pensa che se gli toccasse vivere su un’alta cima, su una roccia, o su di uno spiazzo tanto stretto da poterci posare solamente i suoi due piedi - e intorno a lui ci fossero gli abissi, l’oscurità eterna, un’eterna solitudine e un’eterna tempesta – e dovesse rimaner così per tutta la vita, per mille anni, in eterno - preferirebbe vivere in quel modo che morire subito? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere come che sia, ma vivere! Che verità! Signore! È vile l’uomo! Ed è vile chi per questo lo chiama vile”.
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