Adesso il “toscano maledetto” deve solo decidere se vedere e portare a casa il piatto, cioè un rientro in maggioranza con maggior peso politico nel governo Conte ter, o tentare un ulteriore rilancio che passa per la sostituzione del presidente del Consiglio. Sempre che, alla fine, non sia Giuseppi a tenere le carte coperte fino in fondo e a nascondere nella manica quella manciata di “responsabili” (come si chiamano adesso) che gli consentirebbe di tornare a palazzo Chigi senza bussare alla Canossa di Italia Viva. Il poker tra i due, insomma, è ancora in corso e c’è il rischio concreto che gli altri giocatori, il Pd e i Cinque Stelle facciano la parte del morto, costretti oltretutto a ingoiare Renzi, del tutto inviso a meta dei dem e alla quasi totalità dei pentastellati. Questi ultimi almeno, nel caso in cui l’ex sindaco di Firenze si impuntasse sul no a Conte, potrebbero contare su un premier gradito almeno alla maggior parte di loro, un privilegio piuttosto remoto e improbabile per la truppa di Zingaretti, il segretario che, alla fine, preferirebbe veder uscire la carta delle elezioni, che quasi tutti però nella maggioranza considerano una “peppa tencia”, renziani compresi. Ma per il fratello di Montalbano, un eventuale voto rappresenterebbe la scorciatoia per creare un gruppo parlamentare a lui fedele.
La strada delle urne resta però quella più stretta per le stranote ragioni legate alle ugge europee nei confronti di un paese guidato dalla destra sovranista e all’establishment allarmato dall’idea che a scegliere il successore di Mattarella siano Salvini e Meloni. Ancor di più dopo che l’altro Matteo, per tenerselo buono sulle sue posizioni, ha lanciato la candidatura di Silvio Berlusconi. Quest’ultimo sembra essere l’unico osservatore ammesso al tavolo di poker della maggioranza. E non è escluso che alla fine possa essere invitato a giocare una mano. Di certo la partita è ancora lontana dall’epilogo. Il percorso scelto da Mattarella, che anziché rinviare Conte alle Camere ha scelto le consultazioni, si presta a una duplice lettura. Da un lato il tentativo di verificare se si può costituire una maggioranza parlamentare più solida, intorno all’attuale premier o un’altra figura. Dall’altro anche il semplice prendere tempo nell’attesa che la pattuglia dei “responsabili” lieviti almeno fino a diventare manipolo e possa garantire una tenuta del governo al Senato. La colpa non è certo del capo dello Stato se la situazione stagna. Si sa che le radici di questa crisi, al di là del ruolo centrale interpretato da Renzi, partono da lontano, forse dal giorno in cui, nell’ormai remoto 2018, le urne non hanno consegnato al Paese un vincitore certo, grazie anche a una legge elettorale, il Rosatellum, ispirata dall’esponente allora Pd oggi renziano, che forse si poneva proprio questo obiettivo. Perché tutti sapevano che i Cinque Stelle avrebbero fatto il pieno. Il sassolino piano piano, attraverso due governi retti da maggioranze innaturali (la prima più della seconda) che di certo non rispecchiavano la volontà degli elettori né grillini, né leghisti né dem, sta assumendo le sembianze della valanga. E molti sembrano impegnati a evitare di esserne travolti. Anche perché un’altra ragione che congiura contro il ritorno alle urne è quella per cui, al di là delle tante dichiarazioni d’intenti, il sistema di voto non è cambiato. In fondo hanno avuto solo due anni per farlo. Che fretta c’era?
Prepariamoci ad altri giorni di paginate di giornali e talk show al sapore di aria fritta, infestati da leader, liderini, peones, truppe mastellate, guru con un grande futuro alle spalle, Ciampolillii che inseguono il sogno impossibile di un ministero, maratone tv nel vuoto di Enrico Mentana (in alternativa c’è il dibattito su Ibra sì o no al festival di Sanremo dopo l’alterco razzista con Lukaku). Poi finalmente, forse, vedremo chi ha vinto la partita a poker che si sta giocando sulla nostra pelle.
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