“Quando ero ragazzo” disse, “mi trasferii a Vienna con tutta la famiglia. Laggiù vive ancora una mia vecchia zia che ha sempre fatto la segretaria. Fino alla pensione non ha mai preso un giorno di malattia ed è stata la prima arrivare in ufficio al mattino e l’ultima ad andarsene la sera. La persona ideale con cui lavorare. Peccato che nessuno sia disposto a pagare il biglietto per vedere mia zia al cinema”.
Con la stessa storiella, Billy Wilder potrebbe commentare oggi la notizia che il New York Times ha dichiarato guerra al “lookism”, ovvero alla discriminazione contro i brutti. Una discriminazione, sostiene il giornale, quantificabile in dollari: “Il divario salariale tra belli e brutti è in media più alto di quello tra bianchi e afroamericani: i brutti guadagnano 63 centesimi per ogni dollaro guadagnato dai belli”. Inoltre, mentre da un lato la bellezza è sempre celebrata e ammirata, dall’altro non c’è argine alle battute e alle ironie contro i brutti. Non è più ammesso prendere in giro persone sovrappeso, questo per fortuna è vero, ma la “bruttezza” in senso generale, qualunque cosa sia, è ancora territorio di caccia libera. Non bastasse, questa discriminazione trascina con sé tutta una serie di pregiudizi: i belli vengono considerati più intelligenti e competenti a prescindere e quando capita loro di comparire davanti a un tribunale possono contare su una maggior clemenza dei giudici. “Non c’è che una soluzione – afferma David Brooks, autore dell’editoriale sul New York Times -: cambiare le norme”.
E qui viene il bello – scusate: l’esteticamente neutro -, perché se è ben possibile studiare norme e regolamenti che impediscano di far distinzioni tra persona e persona (e stipendio e stipendio) sulla base di criteri oggettivi quali il genere (anche se sull’oggettività del genere è in corso un dibattito interessante pur se a tratti grottesco), il colore della pelle, la nazionalità e la religione (o la mancanza di essa), ben più impegnativo sembrerebbe scongiurare a norma di legge discriminazioni di carattere estetico. Per evitare di discriminare tra due categorie di persone, bisogna per prima cosa stabilire che esistono due categorie distinte e quindi definirle: belli da una parte, brutti dall’altra. Chi se la sente di fare la selezione? A quale funzionario assegniamo il compito di scrivere (e dunque definire ufficialmente) sulla carta d’identità, accanto a nome e cognome, data di nascita, residenza, stato civile e segni particolari, anche la categoria estetica di appartenenza? La conclusione di Brooks implica che lui non avrebbe difficoltà a distinguere tra persone belle e persone brutte: non denuncia così di essere già dominato da un pregiudizio?
Benissimo farebbe chi, al sospetto di essere stato discriminato in favore di un collega più bello, sollevasse il caso e perfino (se ha le prove) denunciasse il datore di lavoro, ma un ipotetico ddl contro la “bruttofobia” incorrerebbe innanzitutto nella necessità di creare un ufficiale sottosistema dei brutti, recinto sociale di cui non sentiamo la mancanza.
Quando combattiamo l’omofobia stabiliamo giustamente un’equivalenza tra le inclinazioni sessuali: possiamo fare altrettanto, in linea generale, con bellezza e bruttezza? Ci troveremmo costretti a dichiarare la “bellezza della bruttezza”, cadendo in un fatale paradosso. Nessuno, in fondo, vuole essere “brutto”: al limite, va a cercare la bellezza laddove i più non la vedono, oppure dichiara la propria “bellezza interiore”. Qui, invece, si vorrebbe portare allo scoperto una sorta di bruttezza oggettiva, pretendendo di equipararla alla bellezza. Annullando il contrasto, ammazzeremmo l’una e l’altra.
E poi ricordiamoci di Billy Wilder e dell’effetto Marilyn. La bellezza ci attrae e, attraendoci, crea uno sbilanciamento, una parzialità. Al contrario, la bruttezza ci respinge (anche se si potrebbe osservare che, in realtà, induce a sua volta un effetto di ribaltata attrazione) e produce una parzialità uguale e contraria. I belli a volte approfittano di questa parzialità per avere dei vantaggi, oppure terze persone sfruttano la bellezza dei belli per venderci film, riviste, vestiti e molto altro ancora. Per fortuna però gli artisti ogni tanto si divertono a giocare con la bellezza per rimetterla in discussione. La bellezza ha infatti questa caratteristica: non rimane sempre uguale nel tempo. Non si spiegherebbero altrimenti i gusti estetici degli adolescenti che, cambiando di generazione in generazione e saldati con il desiderio di indipendenza, lasciano gli adulti nel disgusto e nella confusione.
Nel suo romanzo “Schiavo d’amore”, W. Somerset Maugham racconta dell’attrazione ossessiva provata da un giovane afflitto da un difetto fisico per una donna non particolarmente bella. Lo scrittore riesce a rendere in maniera efficace l’intricata dinamica tra i due, fatta di codici estetici che si riallineano, pulsioni sessuali, incertezze di genere e molto altro. Ne risulta il racconto di due corpi e due anime in tormento, non un banale “affaire” tra belli, brutti o così così.
Insomma, più ci si inoltra nel fitto bosco della cultura umana, ovvero nella penombra di quello che Jung chiamava “inconscio collettivo”, più è difficile dividere l’umanità in categorie e più futile diventa lo sforzo per farlo, tanto che alla fine si rivela ingiusto e fuorviante. Fatto salvo che ognuno, in società, sul lavoro e davanti alla legge, ha diritto di essere trattato al pari degli altri, possiamo davvero continuare a creare oasi umane protette anche quando i criteri di base, come nel caso della bellezza e della bruttezza, sono del tutto incerti e la stessa operazione di tracciare i confini può rivelarsi in prima istanza discriminatoria?
Bellezza e bruttezza restano categorie misteriose e forse per questa ragione ancora oggi esercitano tanto fascino: se sapessimo spiegarle e definirle, avrebbero finito di attirarci. Non sappiamo neppure se la bellezza, che tanto ammiriamo e consideriamo fonte di vantaggi e privilegi, sia per davvero sinonimo di beatitudine. Il caso stesso di Marilyn Monroe, tanto per tornare a bomba, insinua come sappiamo un tragico dubbio.
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