Ci siamo abituati alla sua voce, alla scenografia spartana che lo accoglie, perfino ai gesti qualche volta un po’ convulsi della signora che lo traduce nella lingua dei segni. E ormai conosciamo bene l’effetto che tutto ciò provocherà in noi.
Da quel momento, il nostro animo conoscerà il suo quotidiano precipizio: dapprima farà esperienza del tuffo a caduta libera, quella vertigine disperata che, a volte, ci agguanta nei sogni, poi, in affanno, cercherà un paracadute. Ogni appiglio gli sembrerà buono: soprattutto l’egoismo. Sì, ammette l’animo disperato, ci sono ancora tanti morti ma sono quasi tutti ottantenni o novantenni. Sì, ma avevano malattie pregesse (e tuttavia a essere franchi dovremmo riconoscere che è la vita stessa, quando ormai abbastanza lunga, a essere una malattia pregressa). Sì, ma ci sono più guariti. Sì, ma la nostra provincia non è la più colpita. Sì, ma a Codogno non si ammala più nessuno. Sì, ma in Cina ce l’hanno fatta. Sì, ma in Israele hanno inventato il vaccino.
Questa del bollettino delle ore 18 è una forma di angoscia di massa che, forse, ancora non conoscevamo. Ci eravamo abituati (?) a essere presi per il bavero, di tanto in tanto, dal terrorismo: un picco di ansia e preoccupazione che, con il passar dei giorni, scemava attraverso un rituale collaudato - la rabbia, il dolore, le bandierine e gli hashtag di solidarietà e, infine, il polemicone a Porta a Porta e a Piazzapulita – per tornare a impennarsi alla successiva, feroce mascalzonata.
Il bollettino delle ore 18 è invece sistematico e cadenzato: una tortura programmata, un quotidiano attentato al nostro equilibrio mentale. C’è poco da illudersi: si tratta di un’esperienza che consegnerà alla psiche individuale e collettiva un nuovo fardello da portare. Un bel campionario di ansie, nevrosi, sospetti, paure e complessi del quale, in una società già psicotica di suo, davvero non si sentiva il bisogno.
Intanto, dobbiamo imparare a convivere con il bollettino del virus. Come? Difficile immaginare ci sia una ricetta sicura. I nostri nonni impararono a vivere con i bollettini di guerra e certo non doveva essere meno doloroso leggerli, ogni giorno, sia pure intessuti com’erano di prosa eufemistica (“rettifica del fronte”, “ritirata strategica”, “pressione nemica”), quando in uniforme c’era il proprio figlio o il proprio nipote. Impareremo anche noi, per forza, e forse sarà utile ricordare che, da parte nostra, non c’è molto da fare se non tener duro e rigar dritto con l’isolamento e le precauzioni.
Borrelli non ha il cipiglio di Cadorna e Diaz, non annuncia disfatte o trionfi ma numeri, tanti numeri. Prima o poi - speriamo prima - se ne uscirà con quello giusto, quello che tutti aspettiamo: zero.
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