Facile il gioco di parole: l’autonomia differenziata, riforma bandiera della Lega, potrebbe finire tra la spazzatura come la raccolta differenziata. L’opposizione sta raccogliendo, con un certo successo, le firme per un referendum abrogativo destinato al successo nei territori al di sotto del Po e quindi nella maggioranza degli elettori. Agli avversari, nel caso, non resta che sperare nel mancato raggiungimento del quorum. Se sarà indetta la consultazione, infatti, servirà necessario il 50 per cento più un voto perché il risultato sia valido. Insomma ci vorrebbe una partecipazione parecchio superiore a quella registrata nelle ultime elezioni europee.
Se l’autonomia delle Regioni, e non solo per chi la propone, non fosse una faccenda maledettamente seria, ci sarebbe da ridere. In ogni caso con uno sghignazzo amaro nel notare come ogni tentativo di cambiare l’ordinamento del nostro Stato in senso federalista sia destinato o rischi di finire in vacca. Prima dell’irruzione sulla scena politica di Umberto Bossi e della sua Lega, molto dissimile da quella attuale capitanata da Salvini, la materia era destinata a intellettuali e/o politologi come Gianfranco Miglio e Massimo Cacciari. Il merito del Senatur è stato quello di porre il problema sul campo, con la questione settentrionale. L’Italia, dall’epoca dell’istituzione della Repubblica, era uno stato centralista e parecchio assistenzialista (in buona parte lo è tutt’ora). La stessa nascita delle Regioni, prevista dalla Costituzione, era stata attuata solo nel 1970 e soprattutto per merito della prudente stagione riformista del primo centrosinistra della nostra storia.
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