La «Libreria delle donne» di Milano che alimenta il pensiero al femminile

Nata nel 1975 con un antesignano “foundraising”, la libreria raccogle libri di scrittrici e offre uno spazio di riflessione femminista. Generazioni diverse discutono di parità, violenza e educazione, promuovendo un pensiero critico e la rete tra donne

È sabato pomeriggio, sono a Milano, in via Pietro Calvi 29, vicino a piazza Cinque Giornate. L’insegna è in una via defilata, ma non sfugge allo sguardo dei passanti più attenti: «Libreria delle donne». Lì incontro le protagoniste che mi invitano ad unirmi a loro in una foto all’esterno della libreria. La storia di quel luogo è iniziata molto tempo fa, in una via diversa del capoluogo meneghino: via Dogana 3. Sono passati cinquant’anni dall’ottobre del 1975, quando ha aperto i battenti, la «Libreria delle donne». Il resto me lo hanno raccontato le femministe, alcune che in quell’ottobre di cinquant’anni fa erano lì, chi è arrivata qualche anno dopo e chi da poco si è unita al gruppo.

Lia Cigarini, Giordana Masotto, Traudel Sattler, Laura Minguzzi, Silvia Baratella, Laura Colombo e Daniela Santoro… Mi invitano ad entrare e non appena mi guardo intorno, sono circondata da libri. Che è normale, trovandosi in libreria. Con la sola differenza che le autrici sono solo donne: su uno dei ripiani di fronte alla porta ci sono esposti i testi di Dacia Maraini, Sally Rooney, Sylvia Beach, Arianna Farinelli.

Sedute in gruppo, in quell’ambiente caldo e famigliare, prende la parola Lia Cigarini, avvocata milanese e femminista tra le storiche a dare il via a quella rivoluzionaria e coraggiosa scelta di aprire una libreria per donne. «Abbiamo ricevuto un invito a prender parte a un incontro in Normandia, era un periodo di festività politica – racconta Cigarini – Quel gruppo di donne ci aveva colpito e siamo state prese da un grande entusiasmo, ispirate dal fatto che loro avevano già aperto una libreria». Si riferisce alle femministe della «Librerie des Femmes» di Parigi, a cui il gruppo milanese si è ispirato.

Si sono dovute dotare di una formula, per l’epoca rivoluzionaria, una sorta di “foundraising” dei tempi: erano quindici socie riunite nella cooperativa Sibilla Aleramo. «Non c’era un modello del genere in Italia – raccontano – aperto sulla strada, dove potevi trovare pubblicazioni di donne». Era una novità, e come tale generò uno shock sulla scena editoriale. «Fece rumore – dicevano generando un sovrapporsi di voci che riproponeva l’energia e la grinta di quando qualcosa di bello sta per nascere –. Era una bomba dal punto di vista editoriale e poi nelle librerie era una rarità trovare libri di sole donne. I quotidiani ne parlavano molto, naturalmente, e le aziende editoriali ci facevano templi d’oro, ogni settimana arrivavano con proposte».

Tutto questo accade nel cuore della seconda ondata femminista, dove il panorama – spiega Giordana Masotto, anche lei tra le fondatrici insieme a Luisa Muraro ed Elena Medi – «era di un femminismo caratterizzato dalla pratica di autocoscienza, che nasceva all’interno delle case, e poi veniva portato al di fuori durante gli incontri dove si produceva pensiero, scrittura, pratica politica». La Libreria è diventata fondamentale perché ha dato alle donne uno spazio, ha fornito gli strumenti per stare nei luoghi misti ed è diventata punto di riferimento per la società milanese oltre che ispirazione dentro e fuori i confini della Penisola.

«Voler far incontrare la creatività di alcune con la volontà di liberazione di tutte» recitava il manifesto di apertura, infatti parte dei finanziamenti erano arrivati anche grazie alla vendita di cartelle di opere d’arte realizzate da artiste di rilievo (alcune opere sono ancora appese in Libreria, ndr) coordinate da Lea Vergine.

Era il 1982 quando Traudel Sattler si avvicina alla Libreria e tratteggia quegli anni con un clima di frenesia: «In Germania, il femminismo era quello delle rivendicazioni, delle manifestazioni di piazza per la parità dei diritti e le consigliere della parità erano ovunque». Traudel parla di volontà da parte delle donne di uscire dalla “safe-space e di sessualizzare i rapporti sociali”, nel senso di far emergere il fatto di essere donna in ogni contesto della società. «Questo ha scatenato un’attività frenetica tra le insegnanti, le filosofe, le scienziate, e le storiche. Fior fiori di libri vennero pubblicati mentre la stampa mainstream titolava “il femminismo è morto” perché non vedeva più le manifestazioni di piazza, ma in realtà la produzione proliferava».

È proprio alle donne della Libreria che chiediamo di darci delle dritte, di illuminarci, forti della loro attività di studio e dell’esperienza, su alcuni temi che sono ancora oggi oggetto di discussione.

Pari…ma pari a chi?

La scintilla dell’epoca era creare un movimento che fosse contro la parità di genere. In che senso? «La parità - spiega Laura Colombo, che appartiene alla generazione successiva di femministe arriva in Libreria verso la fine dello scorso millennio – presuppone che entri nel mondo con una misura già data, che è quella maschile. Tutto è modellato, al lavoro, in famiglia, tra le donne stesse, da un simbolico che è maschile. E quindi se devi essere pari lo devi essere a chi? A un uomo».

Fare rete non ha scadenza

È uno strumento di cui sempre più aziende si stanno dotando, ed è la certificazione della Parità di genere. Ma è davvero lì che si giocano le pari opportunità tra uomo e donna? Ci spiegano che si tratta di concessioni calate dall’alto che, nel caso specifico, sta ad indicare quante donne ricoprono ruoli dirigenziali. È però una misura di policy che non ha garanzia di durata. Un esempio: è sufficiente un cambio di Governo, e con esso vengono spazzate vie anche tutte le politiche sulla diversity.

In questo ci aiuta a comprendere meglio cosa davvero porterebbe al cambiamento la sindacalista Michela Spera: «Una pari opportunità la si identifica con l’espressione della soggettività – dice –. Quando le relazioni tra donne permettono di esprimersi, poter contare sulle altre, riconoscersi e sentirsi valorizzate in una misura che non è quella degli uomini, altrimenti si rincorrono comportamenti che estraniano la donna dalla sua soggettività». Il contesto cambia, per davvero, solo se si dà alle donne la possibilità di esprimersi secondo il loro sistema di valori. Le donne devono fare rete. «Negli anni sono sempre venuta in Libreria per poter attingere il pensiero e portare la pratica politica in altri luoghi, per avere la possibilità di stare nei luoghi misti con qualche strumento», aggiunge Spera.

Bambine e bambini vanno educati alla parità di genere?

La risposta è no. Non ha alcun senso e questo è in parte dipeso dal fatto che il ruolo della donna è molto cambiato negli anni. Le bambine prendono le madri come modello. E le ragazze «anche se non hanno una madre femminista, hanno una madre segnata dal femminismo» dicono le intervistate. Il ruolo che la scuola ha nell’educazione sia dei maschi che delle femmine gioca invece un ruolo importante: possiamo pensare che il problema sia solo per le figlie femmine invece ci sono fenomeni che riguardano anche gli adolescenti maschi. Daniela Santoro, classe 1999, incarna la nuova generazione al fianco delle Libraie femministe e pone l’accento su un problema meno risentito: «Un aspetto che riscontro a scuola, ma anche in università o al lavoro, è la mancanza di soggettività dei ragazzi e delle ragazze sotto le pressioni di standard sociali che appiattiscono e livellano le peculiarità del singolo. Lo standard invece è il singolo. – dice –. Questo si espande a macchia d’olio sui ragazzi adolescenti maschi che sono sempre più fragili, e proprio perché lo standard impone che “non devi essere fragile” loro soffrono il doppio».

Il patriarcato è finito?

«Questa crisi dei maschi ha molto a che fare – aggiunge Laura Colombo – con la rivoluzione femminista che ha sovvertito l’ordine simbolico: il patriarcato come lo conoscevamo cinquant’anni fa non c’è più». E questa è, senza dubbio, una vittoria del femminismo. «Esiste una libertà femminile iscritta nell’ordine simbolico, sono saltati dei cardini». Il concetto è quello del caos post-patriarcale, dove d’altro canto, sono gli uomini, i padri ad aver perso dei riferimenti chiave e di conseguenza è più difficile per i maschi adolescenti orientarsi in un sistema dove è diventata la madre il punto di riferimento.

Il linguaggio della violenza

I media hanno una grande responsabilità quando scrivono di casi di violenza sulle donne o di femminicidio. «La necessità è quella di risemantizzare il discorso sulla violenza, come viene “pubblicizzata”». La descrizione ricca di particolari, minuzie, quasi fosse un’inquisizione si trasforma in pornografia della violenza invece che in dovere di informazione. «In un mondo in cui la pornografia è resa sempre più accessibile e ad età sempre minori – spiega Santoro – si alza la soglia della violenza e non si genera altro che una doppia vittimizzazione della vittima dando l’idea di quale è lo standard della violenza». La conseguenza, quindi, è che dal momento in cui si “devia” dallo standard che viene identificato allora cominciano le domande come “Ma come era vestita?”, o i commenti “Forse se l’è cercata”, fino ai dubbi “Ma si è trattato davvero di violenza?”.

Quanto spesso leggiamo titoli come “Donna violentata da un uomo”, e mai il contrario, “Uomo violenta una donna”. L’oggetto della comunicazione è sempre la donna violentata e non l’uomo che ha commesso la violenza. «Noi la percepiamo come paziente dell’azione, la protagonista c’è ma non si vede e questo provoca una seconda vittimizzazione», conclude Santoro.

Per quanto riguarda il futuro della Libreria, mi dicono, «è un eterno presente, una relazione senza fine. Non c’è mai stato l’intento di agire per obiettivi o di creare una società ideale, ma sempre una compresenza di generazioni, e un via vai di donne».

Illustrazione di copertina di Elisa Puglielli - Yoonik

© RIPRODUZIONE RISERVATA