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Parità di Genere
Sabato 01 Marzo 2025
Il femminismo dei dati: decidere cosa misurare è una scelta di potere
I dati sono sempre una nostra interpretazione del mondo. «Possono essere importanti per combattere le discriminazioni o, al contrario, aumentare i pregiudizi e le diseguaglianze», ci spiega Donata Columbro, specializzata nella divulgazione della cultura statistica
Esistono i dati “onesti” ottenuti in modo rigoroso e con un processo trasparente, ma non esistono dati “oggettivi”: sono sempre frutto del lavoro umano. Partire da questo punto di vista è utile per capire cos’è il data feminism cioè un approccio alla scienza dei dati che presta attenzione alle dinamiche di potere e privilegio. Ne abbiamo parlato con Donata Columbro, giornalista italiana specializzata nella divulgazione della cultura statistica e nel femminismo dei dati
Raccogliere dati richiede un impegno economico e tecnologico, bisogna sempre chiedersi chi lo sta facendo e perché lo sta facendo. Il data feminism cerca di individuare chi detiene il potere della raccolta dati, dell’analisi e della visualizzazione. Si interroga su chi è beneficiato dall’esistenza di quei dati o dalla non esistenza di quei dati e su chi invece è discriminato.
Perché parlare di femminismo dei dati?
Il nome pone l’accento sulla questione dell’uguaglianza di genere. Molti dati vengono raccolti usando come “unità di misura” il maschio bianco abile e considerando il resto della popolazione “eccezioni”. Lo si vede, ad esempio, nel campo della medicina, dove gli effetti dei farmaci o i sintomi di alcuni tipi di malattie possono essere diversi per le donne rispetto che per gli uomini, ma questo è poco studiato (ci sono pochi dati). L’approccio del data feminism è basato sul femminismo intersezionale, che prende in considerazione tutti i fattori che influenzano le esperienze delle persone: il sesso, ma anche razza, etnia, classe sociale, orientamento sessuale e identità di genere, abilità, età, religione, nazionalità.
Come e perché dovremmo stare attenti a chi raccoglie i nostri dati?
Ci sono dati sensibili, come quelli sulla nostra salute, ed un conto è che vengano raccolti da un ente pubblico (ad esempio per conto del Servizio sanitario nazionale) un conto cederli a privati, ad esempio attraverso le app che monitorano il nostro ciclo mestruale o i battiti del cuore. Spesso cediamo i nostri dati in cambio di servizi, ma i nostri dati valgono molto di più. Pensiamo a tutte le volte che abilitiamo la geolocalizzazione, un conto è farlo per una app di mappe e spostamenti (dove se non siamo geolocalizzati è impossibile ottenere indicazioni sul percorso da fare), un conto farlo di default per una app del meteo o di modifica delle fotografie. Abituiamoci a non dare per scontato il nostro assenso, anche nelle piccole cose: possiamo rifiutare i cookies accettando solo quelli tecnici, non dare informazioni sulla nostra localizzazione, non concedere l’accesso ai nostri dati e alla nostra rubrica. Se qualcuno vuole profilarci o vendere i nostri dati a terzi deve avere il nostro permesso.
Che esista l’Istat è fondamentale. È fondamentale che i dati vengano raccolti dal pubblico e in maniera accurata e rigorosa. Prima di definire il dato ci sono accurate riflessioni su come osservare un fenomeno. Ad esempio, ci sono voluti 5 o 6 anni per il primo questionario Istat sulla violenza sulle donne. È un lavoro enorme. Per usare un gioco di parole: un dato non è “dato”. I dati sono lavorati, costruiti, prodotti.
Come fruitori di dati, quali domande dobbiamo farci?
Dobbiamo chiederci cosa è incluso e cosa no, come è stato calcolato il dato e con che metodologia. Meglio leggere i metadati di una ricerca, che ci spiegano qual è il campione statistico, quale il metodo di raccolta utilizzato (ad esempio, se si usa solo l’online tutte le persone senza accesso alla rete sono escluse), come sono definite le domande. Ad esempio, i dati Eurostat sulla disabilità sono calcolati in base all’auto percezione delle persone, non in base di chi usufruisce della legge 104. In questo caso, non c’è un meglio o un peggio, ma bisogna sapere quali dati si stanno leggendo. Molto importante è anche evitare di trarre conclusioni troppo dirette. Se, ad esempio, leggiamo che l’occupazione è salita del 5% bisogna chiedersi anche: con quale tipo di contratti, qual è l’andamento dei salari e della produttività, quali sono le differenze nella crescita di occupazione fra uomini e donne eccetera. Un dato è solo la punta di un iceberg. È utile anche conoscere i concetti di base di statistica: la media, la mediana. Evitare il cherry picking (l’attitudine a ignorare i dati che non ci piacciono e cercare solo quelli che confermano la nostra tesi o il nostro modo di pensare) e, banalmente, controllare numeratore e denominatore. Se, ad esempio, leggo che alle elezioni sono andati alle urne di più gli studenti di Milano rispetto che quelli di Potenza devo tenere conto del numero totale di studenti nelle due città.
Di solito si dice che i numeri parlano da soli. Non è così?
No, i dati sono un costrutto umano e sociale. Non esistono dati oggettivi: il dato può essere rigoroso e trasparente il processo per ottenerlo, ma l’oggettività è un mito pericoloso. Pensiamo all’amministrazione Trump, che sta cancellando i dati dell’amministrazione pubblica che non sono allineati alla sua visione politica, compresi dati sui crimini d’odio a livello statale. È censura, non oggettività.
Dipende, i dati possono beneficiare ma anche discriminare. Esistono comunità sovra controllate. In Usa, per esempio, è possibile incrociare le banche dati, quindi se una persona ha un sussidio statale può avere poi difficoltà di accesso al credito e non riuscire ad accendere un mutuo. In Europa fortunatamente il Gdpr dà una possibilità limitata di incrociare i dati.
Cosa dovremmo chiedere, quindi?
La cura del dato, della sua produzione e della sua raccolta. Chi definisce i questionari deve essere inclusivo perché includere o meno persone diverse (per sesso, razza, età etc) fa cambiare i risultati di una ricerca. Bisogna spiegare come viene utilizzato il dato e a che ora serve, con un lavoro di alfabetizzazione perché tutti possano accedervi e i dati siano facilmente. Ad esempio, i dati sulla violenza sulle donne sono sparsi in tante banche dati, spesso sono in pdf e senza serie storiche, provenienti da fonti diverse. In questo caso c’è una barriera anche di comprensione, perché solo le persone con competenze in questo ambito possono leggere correttamente i dati.
Illustrazione di copertina di Elisa Puglielli - Yoonik
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