Le strade che da Lecco portano a Colico hanno una loro storia secolare. Sono vie di comunicazione che offrono panorami straordinari, ma che possono trasformarsi in un incubo quando un incidente o una frana costringono a code inenarrabili. Cominciamo col dire che sino al 1831 per arrivare a Colico da Lecco, senza una barca, bisognava percorrere la Valsassina con tutto quello che ne conseguiva, visto che non era un percorso agevole.
Nel 1566 il cardinale Carlo Borromeo fece la sua prima visita pastorale alle parrocchie della valle. Ce ne parla, con dovizie di particolari, Giovanni Pietro Giussano, un sacerdote che fu al servizio del cardinale e che nel 1610 pubblicò una vita di san Carlo. Dalle sue note appare chiaro come per recarsi in Valsassina il futuro santo dovette fare fatiche incredibili e patire «disagi inenarrabili».
La strada era pessima, le difficoltà grandi; solo l’energia e la forza di volontà del cardinale potevano vincere gli ostacoli: «In molti luoghi - scrive Giussano - non si potevano condur cavalli per la difficoltà delle strade e delle erte montagne, onde il buon pastore era costretto fare a piedi molte miglia con un bastone in mano, a guisa di uno di quei poveri montanari... E quando aveva da passare in qualche balza o luogo pericoloso, si metteva certi ferri sotto i piedi e con quelli camminava; e si è veduto talora camminare colle mani e coi piedi in terra per passare più sicuramente i luoghi pericolosi».
Il viaggio di d’Azeglio
Più di due secoli dopo ripercorse quella strada Massimo d’Azeglio. Il grande statista, scrittore e pittore, si trovava a Bellano nel luglio del 1839. Da lì volle recarsi in Valsassina pur essendoci ormai da otto anni la strada a lago. La sua intenzione era quella di fermarsi qualche giorno in valle, ma la permanenza durò molto meno del previsto. Il pittore ne diede una puntuale cronaca in una lettera del 20 luglio, scritta alla moglie dall’Albergo Croce di Malta a Lecco: «La nostra dimora in Val Sassina è stata più breve di quel che s’immaginava, ed ha durato un giorno soltanto». Il racconto è divertente e divertito ed è dedicato sia ai personaggi incontrati, sia ai luoghi che Massimo d’Azeglio si trovava a percorrere per la prima volta: «Ci siamo alzati col lume per potere caricar il bagaglio e partir presto. Tuttavia alle cinque soltanto ci siamo mossi su certi cavalletti che non promettevano molto, e sono stati di parola. Da Bellano la strada sale ravvolgendosi pei seni del monte fra bei castagni e così dopo un’ora si giunge ad un’altezza di dove si domina alle spalle il lago, a fronte gran parte della Valsassina, che ieri, illuminata dal sole poco alto, era d’una tinta meravigliosa. Si scende di nuovo, e s’arriva a Cortenova. Vi ci siam fermati a riposarci un momento, e per istrada c’eravamo già fermati un momento per disegnare. Di là in due ore siamo stati ad Introbbio». E proprio qui, proprio all’osteria di Introbio, iniziò il divertente siparietto che d’Azeglio ci narra con dovizie di particolari: «Appena smontati all’osteria eccoti un signore che ci s’accosta, e comincia ad attaccar discorso, e far l’amabile offrendoci camere a casa sua, e finalmente dice che mi conosce, mi dà del marchese ad alta ed intellegibil voce (e a pagar il conto ci siamo accorti che l’oste aveva sentito) e finalmente se n’esce col nuovo e dilettevol argomento del Fieramosca! Insomma ci ha voluti condurre a veder la rarità, la chiesa, una cascata lontana poco, ma che ha bisognato camminar mezz’oretta in una gola di monte col sole verticale, e camminar non coi piedi solamente, ma con le mani… che siam tornati che si colava: e la cascata non valeva la pena nemmeno di 10 minuti di strada piana».
La resa dei cavalli
L’incontro fortuito con l’invadente personaggio non finisce qui. Quello fu solo l’inizio di una specie di martellante presenza che fu probabilmente uno dei motivi che fecero durare così poco il soggiorno. Basta Valsassina, dunque, per Massimo d’Azeglio, che riprese velocemente la via per Lecco. Ma anche questo tratto di strada non fu privo di sorprese: «Quando fummo a tre o quattro miglia da Lecco i nostri cavalli hanno protestato: e perciò siamo scesi a piedi, e così ce ne siam venuti a lume di luna fino all’albergo». Una giornata indimenticabile per Massimo d’Azeglio, che trovò infine il conforto desiderato all’Albergo Croce di Malta a Lecco.
Chi invece non diede grande importanza ai disagi fu il cardinal Ildefonso Schuster che nel 1930 eseguì la sua visita pastorale in tutta la Valsassina. Dopo massacranti giornate, l’ultima sua tappa fu Ballabio. Qui confessò fino a tarda notte ed all’alba celebrò la messa e diede quattrocento comunioni. Alle sette di quella mattina partì per Milano con un’affermazione encomiabile: «Digiuni si cammina di più».
Chi mise mano al collegamento diretto tra Lecco e Colico fu l’ingegner Carlo Donegani (1775-1845). Uomo pratico e geniale, in pochissimi anni progettò e realizzò opere ancora oggi di vitale importanza per la storia della Valtellina, della Valchiavenna e del Lario: nuove strade, come quelle dello Stelvio e dello Spluga e importanti interventi su altri tracciati, tra cui la Tirano-Bormio e la Lecco-Colico, realizzata tra il 1825 e il 1831. «La costruzione pressoché ex novo della Lecco-Colico - ha scritto lo studioso Massimo Cioccarelli - costituisce indubbiamente, fino all’apertura della nuova superstrada a scorrimento veloce, al traforo del monte Barro e all’attraversamento sotterraneo di Lecco, il fatto più rilevante nella storia moderna e contemporanea delle strade ordinarie dell’area orientale lariana».
I lavori della Lecco-Colico iniziarono nel 1825 e comportarono la costruzione di otto gallerie, per una lunghezza totale di 1.049 metri, oltre a interventi d’ingegneria stradale considerati vere e proprie “opere d’arte” per l’ingegno che richiesero e le novità che apportarono. Il 22 marzo 1987 si aprì un altro importante capitolo: venne inaugurata la superstrada Lecco-Colico dopo vent’anni dall’inizio dei lavori. La lunghezza era di 29 chilometri, di cui 21 in galleria, e costò trecento miliardi di lire.
Il confronto
Fatte le debite differenze, sta di fatto che la vecchia strada a lago fu completata in sei anni ed eravamo nell’Ottocento, la cosiddetta super ha richiesto decenni che sono sembrati un’eternità. Infine, resta il “come” sono state fatte le due arterie. La prima regge agli urti dell’età e delle traversie atmosferiche, la seconda, pur molto più giovane e moderna, soffre di problematiche strutturali. Infatti, il 10 maggio 2013 si dovette chiudere la canna Sud per alcune lesioni nel rivestimento esistente e irregolarità altimetriche sul piano viabile della canna di monte della galleria Monte Piazzo. Quindi il tunnel venne interdetto al transito in entrambe le direzioni di marcia: per circa un mese il traffico fu deviato lungo la SP 72, incapace di reggere l’ingente volume di veicoli. Un problema che richiama le grandi polemiche degli anni Settanta. Un altro aspetto della storia legata alla Superstrada 36, infatti, è quello della lotta dei comitati popolari. In particolare fu molto attivo negli anni Settanta quello di Colico, che si batteva per lo spostamento a monte della Superstrada 36. I comitati non furono ascoltati, ma i loro dubbi nel tempo si sono rivelati fondati.
L’impressione è che anche negli anni Sessanta e Settanta del Novecento ci sarebbe forse voluto un ingegnere come Carlo Donegani.
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