Cronaca / Lecco città
Lunedì 20 Gennaio 2025
«Volevano ucciderci, ci siamo salvati solo per fatalità»
L’intervista a Lionello Colombo. Cinquant’anni fa l’agguato neofascista alla fiaschetteria Valsecchi di Lecco. «Aprirono il fuoco ad altezza uomo»
Anni Settanta, gli anni di piombo. Le lotte operaie, rossi contro neri, le stragi e il terrorismo. Anche nella placida Lecco c’erano fermento e tensioni. Due gli episodi che hanno segnato quel decennio: la bomba che distrusse in via Roma la sede del Partito socialista italiano nel 1974 e, l’anno successivo, l’agguato alla fiaschetteria Valsecchi. Una dozzina di colpi di pistola esplosi da un “commando” neofascista sul ritrovo preferito dei giovani di sinistra. Tre i feriti: Guido Alborghetti, poi eletto in parlamento per il Pci e gli studenti Fabrizio Pedrazzoli e Lionello Colombo. «Non li vidi in faccia - dice a cinquant’anni di distanza il “Lello” - e per questo non li denunciai durante il riconoscimento all’americana che venne disposto dalle forze dell’ordine in carcere. Avrei avuto gioco facile a individuare i colpevoli fra quanti vennero fatti sfilare davanti a me, a dire che quei ragazzi - chiaramente di destra, all’epoca c’erano le divise - avevano sparato. Non lo feci, non mi andava di mandare in carcere miei coetanei che non la pensavano certo come me, ma che magari con quell’aggressione non c’entravano nulla. Le accuse erano pesanti».
Cosa ricorda di quella sera?
«Era dicembre. Ero fuori dalla bottiglieria a parlare con due amici appoggiato alla loro Cinquecento. Stavo per tornarmene a casa. La fiaschetteria Valsecchi era un negozio storico di via Cairoli. Aveva una cantina sotterranea stupenda che arrivava fino all’incrocio con via Mascari. Di giorno ci andavano un po’ tutti. La sera invece era diventato il ritrovo di chi stava a sinistra. Non era un posto schierato politicamente e questo va detto per fare giusta memoria dei proprietari. Ai tavoli c’erano quelli che giocavano bene a scopa. Si beveva qualcosa insieme e si discuteva di politica».
Che cosa successe?
«Vidi da lontano una Range Rover che, dopo esser scesa per via Cavour, mancò la svolta per via Cairoli. Fece un pezzo di retromarcia e poi imboccò la strada in contromano. Ripensandoci avrei potuto notare che c’era qualcosa di strano, ma anche un commerciante della zona aveva un’auto dello stesso tipo. Pensai fosse la sua. Si fermò proprio davanti alla Cinquecento. Iniziarono a sparare, fuori e dentro il locale. Una dozzina di colpi ad altezza d’uomo. Ferirono me, Fabrizio Pedrazzoli e Guido Alborghetti che, pensate, stava pagando alla cassa. Sui muri della bottiglieria sono rimasti i segni dei proiettili. Uno invece mi trapassò il colon. Ci caricarono in auto e ci portarono subito in ospedale. Rimasi comunque sempre cosciente».
Ci fu una reazione subito all’accaduto?
«Facevo parte del Movimento studentesco di Milano. Erano pronti a fare casino a Lecco. Chiesi loro di stare tranquilli, non era questo lo spirito giusto. Quando venni dimesso, la prima cosa che feci fu tornare alla fiaschetteria a farmi un bicchiere in compagnia. Non voglio però con questo minimizzare l’accaduto. Avevano sparato ad altezza uomo, volevano uccidere e non ci sono riusciti forse per una fatalità. Questo lo devo ribadire perché, negli anni, tanti anche a sinistra ci hanno preso un po’ in giro per quello che è successo. La verità è che ci è andata bene. Chi ha sparato non voleva solo spaventarci».
I responsabili non sono mai stati individuati
«Vero. Sì scoprì che l’auto era stata rubata. Era di un imprenditore brianzolo proprietario di una villa ad Abbadia. Pare che il figlio fosse vicino agli ambienti dell’estrema destra. Mi chiamarono in carcere e fecero sfilare davanti a me i presunti responsabili. C’erano detenuti comuni e fra di loro alcuni giovani che, chiaramente, facevano parte dell’estrema destra. Non avendo visto nessuno in faccia quella sera, non individuai alcun sospetto fra i presenti. Poi finì tutto in nulla. Anni dopo, non uno ma due poliziotti che conoscevo per altre ragioni, mi dissero che la vicenda era stata insabbiata dall’alto. Ne prendo atto».
Quale può essere stato il movente?
«Lecco non era una piazza tale da giustificare un simile agguato. Sì, c’era stata qualche scazzottata fra giovani di idee diverse, ma non c’era la tensione che si respirava a Milano o a Roma. Dopo tutto, ci si conosceva tutti. Chi stava dall’altra parte era magari un amico d’infanzia, un compagno di scuola. Capitava di trovarsi insieme alle feste. Non credo che all’agguato abbiano preso parte esponenti della destra lecchese. Venivano chiaramente da fuori, altrimenti avrebbero saputo dove svoltare per trovare la fiaschetteria Valsecchi. Credo che ad agire quella sera furono invece giovani dell’ambiente neofascista milanese, magari con il sostegno di qualche vecchia conoscenza della destra comasca e, suppongo, magari anche sotto l’effetto di qualche sostanza. Forse bisogna ricordare che, in quegli anni, i giovani militanti di sinistra giravano al massimo armati di una chiave inglese. A destra invece era più facile imbattersi in qualche coetaneo con una pistola in tasca».
Come giudica oggi l’accaduto?
«Sono qui a raccontarlo. Non rimpiango il clima di contrapposizione di quegli anni e non voglio che gli anni Settanta siano ricordati solo per queste vicende. Per me sono stati gli anni della scoperta della musica jazz in un contesto culturale e sociale oggi inimmaginabile. Andavi ai concerti e ti capitava di parlare - anche di suonare, se eri fortunato - con mostri sacri. Oggi il jazz e la musica sono diventati tutta un’altra cosa, mi spiace per i ragazzi che non hanno nemmeno l’idea di quelle esperienze e di quelle emozioni».
Negli anni, la sua esperienza politica è poi proseguita. In ultima veste da consigliere comunale di Rifondazione comunista nel 2009 contribuì alla caduta della giunta Faggi.
«Ho condiviso l’operazione nel merito, non nel metodo. Ero senza dubbio d’accordo a porre fine a quell’esperienza amministrativa da un punto di vista politico. Quando venni contattato dagli esponenti del centrosinistra che - su input di alcune componenti del centrodestra - avevano condiviso la strada delle dimissioni collettive dal Consiglio per portare alla conclusione anticipata dell’Amministrazione, dissi chiaramente che avrei preferito portare la discussione in aula. Avrei preferito una sfiducia aperta e motivata a carte scoperte e davanti a tutti. Fu scelta invece un’altra strada. Mi dimisi solo dopo aver visto dal notaio le firme anche dei cinque consiglieri di maggioranza necessari al commissariamento».
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