Il lavoro di Fabio Fedeli,
uno degli infermieri
che assiste i casi critici
al Manzoni di Lecco
Fabio Fedeli è il presidente dell’ordine degli infermieri. Lavora in terapia intensiva accanto ai malati di coronavirus che hanno bisogno di assistenza primaria. Ci racconta la sua giornata che si dipana su tre turni 7-14, 14-22 e 22-7. «Prima di entrare indosso la divisa bianca da infermiere. Entro in turno qualche minuto prima dell’inizio e i colleghi danno il passaggio delle consegne: le cose accadute e tutto quanto è necessario sapere per gestire il paziente. Questo avviene nell’area “pulita”, diversa da quella contaminata con i pazienti affetti da Covid 19. Prima di entrarci, indossiamo i dispositivi di protezione individuale». La vestizione è abbastanza lunga: «Prima indosso i calzari copriscarpe, poi ci si lava le mani, i primi guanti, il camice rinforzato impermeabile, cuffietta, mascherina chirurgica o Ffp3 a seconda di cosa dovremo fare, visiera o occhiali protettivi, e secondo paio di guanti. Questa procedura va fatta in due perché bisogna essere certi che sia fatta bene per evitare che la fretta o la fatica ci faccia dimenticare qualcosa. E così si fa anche durante la svestizione».
Quindi l’infermiere entra nella zona contaminata. «In questo periodo seguiamo pazienti che sono quasi tutti sedati, intubati e ventilati esternamente. Controlliamo i macchinari di ventilazione oppure i caschi c-pap (ventilazione a pressione positiva continua delle vie aeree). E monitoriamo tutti i parametri, le funzionalità e i presidi utili per gestire i pazienti. Quindi si procede alla visita medica, alle terapie, alle mobilizzazioni». «In terapia intensiva entriamo e non usciamo più fino a fine turno. In degenza cerchiamo di limitare il numero di accessi alla stanza. I parenti, in terapia intensiva non possono entrare. Nei reparti si limitano comunque gli accessi per evitare l’apertura frequente della zona di isolamento». Quando Fedeli esce dal lavoro come sta? «La stanchezza si accusa perché aver cambiato modo di lavorare e tipologia di paziente richiede notevole sforzo dal punto di vista mentale. Tanti automatismi acquisiti nel reparto di provenienza, non si hanno, per cui ci vuole il doppio se non il triplo della concentrazione. Però nonostante ci siamo trovati in gruppi eterogenei provenienti da diversi reparti, abbiamo subito legato e oramai non esiste più la “vecchia” provenienza. Ci sentiamo tutti una grossa squadra. Anche se, lo dico, non ci abbracciamo, niente pacche sulle spalle e ci salutiamo da lontano». n M. Vil.
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