Cronaca / Lecco città
Domenica 18 Agosto 2024
Sette scheletri e un serial killer: un mistero lungo vent’anni
La mattina di sabato 4 settembre 2004 un gruppo di giornalisti addetti alle cronache giudiziarie comasche ricevette una convocazione telefonica dalla segreteria dell’allora sostituto procuratore della Repubblica Silvia Perrucci. L’orario si sarebbe detto antelucano, quantomeno per chi all’epoca faceva vita di redazione, ma il pubblico ministero non intese ragioni: disse che avrebbe parlato con chi si fosse presentato, a prescindere dalla testata e dal numero dei presenti. Gli altri dormissero pure.
Quando i giornalisti (pochi) si furono tutti radunati nel suo ufficio al sesto piano del palazzaccio con vista su mura e bancarelle del mercato, il pm spalancò le ante di un armadio e mostrò il calco in gesso del volto di una giovane donna che finalmente aveva un nome. Era, il calco, quello che il medico legale Antonio Osculati aveva ricavato dal teschio dello scheletro che nove mesi prima, a gennaio, era spuntato da un bosco di Caprante, località nei pressi di Valbrona, cuore del Triangolo lariano, sul confine tra le province di Como e di Lecco.
Teschio e scheletro erano stati sigillati non troppo bene in un sacco nero gettato pochi metri sotto la carrozzabile per Onno, nei pressi del greto di un ruscello che quel giorno, il 23 gennaio, il signor Adriano G. aveva deciso di ripulire dall’eccesso di immondizia abbandonata dai soliti maleducati, la cui madre è sempre incinta. «Il sacco pesava - raccontò poi ai carabinieri -. Ho cercato di spostarlo, ma sembrava come incastrato nel terreno. Ho lasciato perdere e mi sono dedicato ad altro, finché più tardi mi sono impuntato e mi sono chiesto perché mai non dovessi riuscire a smuoverlo. Allora gli ho dato uno strattone più forte, il sacco si è rotto e n’è uscito quel teschio».
Il cranio era privo di mandibola, che fu poi ritrovata qualche metro più in là, la tibia destra era spezzata, mancavano un femore e parte del bacino. Esaminando i resti, i consulenti della Procura stimarono che doveva trattarsi di una ragazza sui vent’anni, alta circa 1,65; era stata legata con nastro adesivo stretto ai polsi e ai piedi, indossava un paio di pantaloni scuri, stivali neri, collant, un twin set beige (cardigan e dolcevita), un giubbotto vinaccia e al polso un orologio di marca Swatch. Nessun dubbio sul fatto che fosse stata ammazzata. Titolo de La Provincia: “Valbrona: l’assassino le ha spezzato le ossa”.
Quella mattina di settembre il pm Perrucci, dopo nove mesi di indagini, annunciò di essere finalmente in grado di attribuire allo scheletro un nome. Trattavasi, disse, di tale Radha M., una ragazzina austriaca di origini indiane allontanatasi nel maggio del 2000 dalla casa di famiglia sulle sponde austriache del Lago di Costanza per non farvi più ritorno. L’illusione durò poco. Un paio di giorni più tardi il padre di Radha rispose a una telefonata di un cronista del giornale e, stupito, rivelò che sua figlia, dopo qualche mese, era tornata a casa, e che a quattro anni da quella sua fuga viveva ora a Berlino in perfetta salute assieme al suo compagno e al loro bambino. «Unbelievable», incredibile, disse la stessa Radha un paio di giorni più tardi, nel corso di una successiva telefonata con la redazione comasca di via Paoli, riassumendo, anche con un certo candore, la storia di quella sua “fuitina” in salsa austro-indiana, con relativo matrimonio riparatore e successivo, mancato aggiornamento delle banche dati Interpol.
Un cadavere dietro alla siepe
Delle ossa di Valbrona, rimaste a tutt’oggi senza nome, non si fece più menzione fino al 13 ottobre del 2006, quando a Orsenigo, sul calare di una sera di inizio autunno, da dietro una siepe sulla statale per Bergamo spuntò un secondo cadavere; il nome cui la Procura risalì nel giro di 24 ore era quello di Evelin Agharewa, una donna nigeriana di 33 anni domiciliata a Torino, una delle tante che ogni giorno, in treno, facevano la spola dal Piemonte per vendersi sulle strade del Comasco. Era stata massacrata di botte, calci e pugni portati soprattutto al volto. L’assassino le aveva ridotto cranio e fattezze in una poltiglia di carni, ossa e sangue, e fu allora che, per la prima volta, qualcuno riandò con la memoria allo scheletro di Valbrona e a quella sua mandibola frantumata.
Del killer di Orsenigo non si seppe mai nulla. Non una traccia, non un indizio, non uno straccio di sospetto fino alla resa dell’archiviazione, che la Procura invocò e ottenne qualche mese dopo.
Nelle redazioni dei giornali - e in realtà non solo in quelle - si cominciò a vociferare dello spettro di un serial killer circa un anno più tardi, nel 2007, quando un martedì di fine agosto, a Morterone, sull’altro ramo, una coppia di escursionisti lecchesi di ritorno dalla val Boazzo si imbatté in altri sacchi e altri corpi. Due. Una volta catechizzati a dovere i coniugi escursionisti («non parlate con i giornalisti, rovinereste l’indagine», ritornello non infrequente e parimenti esilarante, specie alla luce dell’esito dell’inchiesta) gli inquirenti identificarono i cadaveri come quelli di due giovani romene, la 17enne Luminita Dan detta “La zingara”, conosciuta quale praticante il mestiere più antico, e l’amica Lionela Dragan, 19. Per un po’ si indagò sui rispettivi mariti, tali Remus, che qualche mese dopo il rinvenimento del cadavere della sua Lionela aveva deciso lui pure di tornarsene al suo Paese (la Romania) determinato, disse, a raccogliere elementi per fare luce sulla morte della moglie, e Ramon, 20 anni, fuggito all’estero ma non per questo sospettato: la procura di Lecco lo interrogò per l’ultima volta nel 2012 dopo avergli fatto rimediare una condanna a cinque anni e otto mesi per favoreggiamento e sfruttamento, avendolo sempre e comunque ritenuto estraneo alla morte di Luminita.
L’anno di indagine non condusse pressoché a nulla, se si esclude la ricostruzione, l’ennesima, di un contesto arcinoto, quello del cosiddetto “racket” della prostituzione, dimensione inaudita e parallela in cui vigono regole altre, spesso anche difficili da elencare, se non da spiegare a chi ne sia estraneo. I cadaveri di Luminita e Lionela – ragazzine il cui ricordo oggi si è perduto per sempre, alla stregua di quello di tante altre comparse vittime d’un destino che non prevede memoria – sdoganarono una volta per tutte il pensiero dell’assassino seriale, il pensiero dell’esistenza di un mostro del Lario, una sorta di “Son of Sam” alla Berkowitz, il killer della “calibro 44” reso celebre dalla pellicola di Spike Lee. Così fu fatale che si tornasse a parlarne quando i boschi di Perledo, nell’aprile successivo (2008) restituirono – guarda caso rinchiusi nel solito sacco – i resti di “Natasha”, al secolo Silvia Demciuc, cittadina moldava di 25 anni, sposata con un operaio italiano e residente con lui a Imberido di Oggiono, quinta di una vita che più storta non si può, dissipata lungo i marciapiedi comaschi della leggendaria Novedratese, toponimo diventato negli anni sinonimo quasi romanzesco di sesso, zeppe, falò e degrado (umano, soprattutto).
L’autopsia non permise di stabilire le cause del decesso di Silvia “Natasha”, di cui prima della morte si erano perse le tracce da mesi, ma il ritrovamento di quel cadavere – in tempi in cui tutto è fiction e i “cold case” vanno di gran moda – è importantissimo: fu quella l’unica occasione, quantomeno l’unica nota, in cui gli investigatori tracciarono la presenza di alcune impronte digitali sul solito sacco nero che ne custodiva il corpo, e con esse altri residui che i reparti scientifici ritennero in qualche misura interessanti. Tre anni dopo, nel 2011, sempre la Procura di Lecco avrebbe domandato di poter confrontare quell’impronta, e per la verità anche qualche traccia organica scovata sulla scena del ritrovamento delle due ragazzine di Morterone, con quelle rinvenute nel garage di Sesto San Giovanni in cui in quell’anno un’altra prostituta romena di 43 anni era stata seviziata e uccisa secondo un copione che si ripeteva identico. Dell’esito di quegli approfondimenti (negativi?) non si seppe mai nulla.
Una decapitazione
Nel frattempo, la mattina del 4 settembre del 2010 a Malgrate, sotto la rocca, un gruppo di sommozzatori si era imbattuto nella testa di una donna in stato di avanzatissima decomposizione, benché ancora non ridotta allo stato scheletrico. Era incastrata nella parete di roccia a una profondità di circa 12 metri. Quel ritrovamento, su cui nessuno riuscì a fare luce e destinato a rimanere parimenti irrisolto (almeno fintanto che i boschi tra Como e Lecco non avranno restituito un ennesimo cadavere, magari senza testa), portò il totale dei casi sospetti a quota sei. Ma ancora non era finita.
Nel gennaio del 2011 un settimo scheletro spuntò su un declivio boscoso di piazza Santo Stefano, frazione sopra a Cernobbio, in località Barangia. A scoprirlo, il primo dell’anno, fu un parrucchiere di Olzino che passeggiando con un amico sul sentiero che si arrampica verso la sorgente del Cosio si imbatté nel solito cranio.
Poche ore più tardi, con l’aiuto degli esperti del “Labanof” (il laboratorio di Anatomia patologica dell’Università di Milano guidato da Cristina Cattaneo, che i più attenti ricorderanno autrice dello struggente “Naufraghi senza volto”, il libro dedicato alle vittime del Mediterraneo in cui si racconta della pagella scolastica cucita in una tasca della camicia di un adolescente annegato nel canale di Sicilia) furono raccolte su una superficie di diversi metri quadrati una infinità di altre ossa appartenenti tutte al medesimo scheletro . Al “Labanof” stabilirono che doveva trattarsi di nuovo del cadavere letteralmente smembrato di una donna (“depezzato”, si dice in gergo) questa volta di origine africana, tra i 37 e i 52 anni, e il cui volto – come nel caso di Valbrona – fu ricostruito al computer per trarne un calco, l’ultimo, a tutt’oggi ancora senza nome.
Nel luglio del 2013, i fascicoli inerenti tutti questi granguignoleschi omicidi furono finalmente riunificati a Lecco, anche se la loro riunificazione non valse a cavare il classico ragno.
Nei boschi della Bassa
Riavvolgendo il filo della cronaca altri due casi meritano una citazione, benché si tratti di casi soltanto in parte assimilabili a quelli del potenziale serial killer. Il primo, risolto con la condanna di un manovale pachistano che fino all’ultimo tentò di convincere il tribunale della propria innocenza, riguardava il ritrovamento, nel luglio del 2005, di un’altra donna nigeriana, abbandonata esangue nei boschi di frassini e castagni tra Mozzate e Gorla, Bassa Comasca. Il secondo, irrisolto, è quello che pochi mesi dopo ci riportò nella medesima boscaglia per il corpo di una giovane donna di Rescaldina, Nadia Ridolfo, 32 anni, inseguita a lungo anche da “Chi l’ha visto?”, sulla cui fine nessuno riuscì mai a fare chiarezza.
Tra pochi giorni saranno trascorsi esattamente vent’anni da quella prima convocazione in procura a Como, e parecchie cose sono successe nel frattempo: i giornali chiudono prima e i giornalisti si svegliano prima, ma soprattutto la scienza forense ha fatto passi importanti, consentendo di fare luce su tanti misteri destinati altrimenti a restare irrisolti. Li chiamano “cold case”, casi “a pista fredda”, sui quali tornare a indagare magari con l’ausilio di strumenti nuovi. Vanno - come dire? - di moda. E chissà che prima o poi non arrivi anche il momento di queste ragazze sfortunate, comparse piccole e disperate sulla scena delle nostre vite distratte.
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