Cronaca / Lecco città
Domenica 22 Luglio 2018
«Lecco lavatrice della ’ndrangheta»
L’interventoNando Dalla Chiesa analizza i dati emersi dallo studio sulla criminalità organizzata in Lombardia
«Da voi c’è una violenza a bassa intensità ma ad alto significato, soprattutto in Comuni di piccole dimensioni»
Lecchese e Comasco? Una storia di ‘ndrangheta che affonda le radici nel passato (molto più che in altre province lombarde) e soprattutto riveste il ruolo chiave in Lombardia di vere e proprie “lavatrici” di denaro sporco.
A ribadirlo è Nando Dalla Chiesa, proprio all’indomani della presentazione pubblica di uno studio inedito riguardo la criminalità organizzata in Lombardia. La ricerca, curata da Cross, l’Osservatorio sulla criminalità organizzata dall’Università degli Studi di Milano, getta una luce inquietante sulla mafia lombarda.
Storicamente, e anche attualmente, se Milano e Monza costituiscono il cuore geografico dell’interesse delle cosche, Como, Varese, Lecco e Pavia ne costituiscono la “corona”, il fisiologico riverbero. I margini di illegalità sono quindi ben più marcati di tutto il resto della Regione. E Dalla Chiesa non ha dubbi sul perché.
Una presenza antica
«La provincia di Como, quando ancora comprendeva Lecco, è stata tra le prime interessate dal fenomeno – ha argomentato Dalla Chiesa – del resto, ha una presenza antica, fin dagli anni ’50. Allora si hanno le prime notizie degli omicidi legati a competizioni su traffico e contrabbando. Giocava molto la vicinanza al confine svizzero, e il fatto che si tratti ancor oggi di aree economicamente attrattive. Non dimentichiamocelo, è tutta la Lombardia occidentale che viene coinvolta: i movimenti migratori più imponenti, infatti, si portano dietro come parassita l’organizzazione mafiosa o il clan che, soprattutto in un secondo periodo, decide poi di fare scelte più mirate, come quelle che su Lecco ha fatto la famiglia Coco Trovato. Sia Crimine-Infinito sia le recenti inchieste del 2014 hanno portato alla luce la persistenza delle locali in provincia di Lecco. Erano state date per esaurite, ma ulteriori approfondimenti hanno dimostrato un radicamento importante, con conseguenze anche sul controllo della vita pubblica».
Già, ma quali sono le più immediate conseguenze sociali, le evidenze quotidiane della presenza mafiosa? «Parliamo di incendi dolosi, di attentati non eclatanti ad amministratori pubblici o esponenti di associazioni locali. Quello che abbiamo visto è proprio la presenza di una violenza a bassa intensità ma ad alto significato: le province di Como e Lecco non ne sono esenti. Ad esserne interessati sono soprattutto i Comuni di piccole dimensioni perché sono quelli in cui è possibile insediarsi senza particolari costi, senza rischi, senza attenzione della grande stampa».
Insomma, il silenzio, la quiete non sono certo segnali di cessato rischio, anzi. Tanto più in province come quella di Lecco, che più che fare da mercato diretto, funge invece da “lavatrice”. «Quello che è possibile ipotizzare è che nel Lecchese conti molto il riciclaggio, il tentativo di reinserirsi in attività legali. Non tutte le locali praticano il traffico di stupefacenti su grande scala, tanto per citare un esempio. Quanto accade invece in territori come il Lecchese implica, al contrario, una tendenza a istituzionalizzarsi».
Le indagini
Tendenza rispetto alla quale le risposte non sono certo mai sufficienti, in particolare da parte degli amministratori locali. «Occorre mettere in campo soprattutto la voglia di contrastare il fenomeno. Perchè talvolta capita che si facciano magari manifestazioni antimafia, come si fanno magari pure a Palermo, ma poi ci si chiude a riccio, e si accusa di razzismo chi constata la presenza dei clan. Sono indicatori culturali di peso questi: quando si gioca all’accusa di razzismo ci sono buone possibilità che dietro ci sia l’incapacità di difendersi in un altro modo».
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