Cronaca / Lecco città
Sabato 18 Gennaio 2020
Lecco. «Con il job’s act
licenziamenti diminuiti»
La ricerca dei consulenti del lavoro - Il presidente Matteo Dell’Era: «Le conferme in organico dipendono soprattutto dall’andamento economico»
L’Osservatorio dei consulenti del lavoro spiega che il jobs act non sembra aver favorito i licenziamenti rispetto a quanto accade con le assunzioni protette dall’articolo 18.
«L’equazione tutele crescenti-licenziamento agevole – affermano gli analisti – appare infondata». Secondo l’indagine dal titolo “I contratti a tempo indeterminato prima e dopo il Jobs Act” realizzata dall’Osservatorio su microdati Cico (Campione integrato comunicazioni obbligatorie), a 39 mesi dall’assunzione risulta licenziato il 21,3% dei dipendenti assunti nel 2015 con il nuovo regime a fronte del 22,6% dei neoassunti con contratto tradizionale nel 2014. Il contratto a tutele crescenti, inoltre, sopravvive di più rispetto a quello tradizionale: sempre a 39 mesi dall’assunzione, il 39,3% dei contratti stipulati nel 2015 continuano ad essere attivi contro il 33,4% di quelli con articolo 18.
I licenziamenti per motivo economico restano la principale causa di recesso: a 39 mesi dall’assunzione risulta licenziato per tale motivo il 18,5% dei neoassunti con contratto a tutele crescenti contro il 20,6% degli assunti con contratto a tempo indeterminato tradizionale. Il licenziamento disciplinare interessa una quota marginale di neoassunti con le tutele crescenti (2,8% contro 2,1%).
L’unico limite dell’indagine riguarda il fatto che l’insieme dei dati non considera i contratti trasformati da tempo determinato ad assunzioni con tutele crescenti. Per Matteo Dell’Era, presidente provinciale dei Consulenti del lavoro, ciò non incide sul risultato dell’indagine. «Lo studio – osserva Dell’Era – mostra che le assunzioni realizzate dal marzo 2015, che prevedevano un forte sgravio triennale per i nuovi contratti, sono state sostanzialmente tutte confermate in seguito. Quindi le aziende non hanno licenziato. Ricordo – aggiunge Dell’Era – che si confrontano i 39 mesi precedenti al jobs act con i 39 mesi successivi alla sua introduzione: il primo periodo includeva gli anni fra il 2011 e il 2014, anni ancora di crisi, durante i quali tante aziende sono state costrette a licenziare. Le tutele crescenti, dal marzo 2015, sono arrivate in un periodo più di ripresa, durante il quale le imprese hanno mantenuto le assunzioni a dimostrazione del fatto che non sono le condizioni contrattuali ad assicurare occupazione bensì il ciclo economico».
Le aziende licenziano se hanno problemi produttivi o di calo di ordini, e non per la perdita di contributi pubblici e questo, sottolinea Dell’Era, nei nostri territori si è visto soprattutto nel 2018, anno di particolare crescita». Dell’Era nota anche che un altro spartiacque sui licenziamenti è arrivato prima del jobs act, con la riforma Fornero che nel 2012 modifica l’articolo 18.
«Prima della legge Fornero – osserva Dell’Era – un licenziamento illegittimo si concludeva sempre con un reintegro. La Fornero ha introdotto alcune casistiche per cui, in un’azienda sopra i 15 dipendenti, il datore di lavoro era condannato a pagare un’indennità compresa fra le 12 e le 24 mensilità. Il jobs act ha poi posto una questione sul modo in cui il giudice calcola l’indennità affermando che il solo criterio basato sull’anzianità di lavoro non poteva bastare. Serviva aggiungere la valutazione sulla dimensione aziendale e l’indagine sulle ragioni che avevano determinato il licenziamento. Ciò fino al 2017, quando il Decreto Dignità ha alzato l’indennità, col risultato che in una stessa azienda un lavoratore assunto col jobs act può essere risarcito ipoteticamente con 36 mensilità e un altro assunto pre-tutele crescenti con solo 24. Ciò crea una normativa sui licenziamenti ingiusta e diseguaglianza di trattamento fra lavoratori».
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