Cronaca / Lecco città
Martedì 07 Aprile 2020
«Il saluto dei parenti
le lacrime trattenute»
La testimonianzaPaolo Maniglia, medico anestesista, racconta il trasferimento di quattro pazienti da Lecco in Germania
Lui è Paolo Maniglia ed è un anestesista del “Manzoni”. Prima dello tsunami coronavirus si occupava di terapia del dolore, di cure palliative, di accompagnare anziani e giovani colpiti dal cancro ma anche da malattie croniche invalidanti, a vivere il meglio possibile, possibilmente senza dolore.
Ora il dolore, quello che resta conficcato nell’anima, fa parte della sua vita e non riesce, neanche con i farmaci, a scacciarlo perché è il dolore profondo di chi vede spegnere le persone che cura. E dei loro parenti. In un post su Facebook ha commosso Lecco e non solo. Ha descritto il trasferimento dei quattro pazienti lecchesi in Germania avvenuto venerdì 3 aprile.
Opzione remota
Il suo “diario” parte da mercoledi mattina 1 aprile
«Per la terza volta il centro coordinamento ci chiede dei nomi di pazienti intensivi da trasferire. Già altre volte hanno ventilato la possibilità, purtroppo non abbiamo mai concretizzato. Questa volta vogliono quattro nomi per la Germania. Continuiamo a lavorare come se l’opzione fosse remota: 11 pazienti intubati in sala operatoria e due rianimazioni da 10 posti ormai a 12. Più quello stanzone della recovery con i caschi (i famosi C-pap, n.d.r.) che per alcuni è solo l’anticamera dell’intubazione...».
Giovedì alle 23,30 sono confermati i trasferimenti e venerdì 3 si apre la fase preparatoria: «Colonna di cinque ambulanze (una di scorta). Bisogna avvisare i parenti. Preparare le dimissioni. Organizzare l’evacuazione ordinata e senza intoppi. Con Clara cerchiamo di capire il modo migliore. Non esiste un modo migliore, come al solito fantasia e buon senso. Ormai è sempre una prima volta. Nel frattempo un casco precipita e dobbiamo intubarlo... un altro va male... Ok, una cosa per volta».
Il racconto si fa concitato e prende il ritmo dei momenti frenetici e tesi che precedono ogni partenza: «Arriva la colonna. Tutti i pazienti vengono messi sulle barelle monitor e ventilatori collegati. Uno per volta si muovono secondo l’ordine di arrivo dei mezzi. Grazie a Chiara la nostra psicologa alcuni parenti possono vedere i loro cari passare. Velocemente. Un’occhiata e molte lacrime. E poi via. Tutto finito nel giro di poco». Ma a commuovere è il distacco tra medici e pazienti in trasferimento: «Molti occhi guardano a terra. Molti sono rossi alcuni piangono. Sono i nostri pazienti li abbiamo curati fino ad ora. Ci siamo affezionati. E credo loro a noi. È dura vederli partire ma in questo modo gli diamo più che una chance. Noi siamo bravi. Anzi bravissimi. Ma siamo pochi e i pazienti troppi. E ancora ne arrivano. Cerco di spiegare le ragioni di certe scelte. Non so se ci riesco. Se mi credono. Forse un abbraccio a volte vale più di mille parole. Tanto abbiamo le tute siamo protetti. Anche se il dubbio rimane... Dove andranno? Come li tratteranno? Staranno bene come da noi? E i familiari?».
Poi la telefonata con il centro di coordinamento che spiega a Maniglia: «Vanno in ospedali grossi, preparati, non affollati. I percorsi vengono tracciati e nel report ci diranno ogni paziente dove va. L’areonautica militare tedesca ha allestito un aereo con postazioni rianimatorie per il trasporto. Finalmente un aiuto concreto. Ci hanno permesso di respirare dopo più di 40 giorni. Rimane il dubbio di come stiano i “nostri” pazienti. Continuo a pensarci. E sicuramente non sono l’unico».
Dati richiesti
Ma poi arriva la telefonata dalla Germania. «In un italiano abbastanza “tedesco” mi richiedono informazioni sulla terapia effettuata dal signor L. in Italia. Il Dr. Han. Cerco di ricordarmi a memoria farmaci, esami, colturali.... mi scuso e prometto di mandare una mail in serata appena monto di turno con tutti i dati richiesti. Mi sembra - confida - di parlare con un collega al cambio turno. Familiare. Gentile. L’impressione è buona. Mi rilasso. Abbiamo fatto la scelta giusta. Ci hanno teso una mano e l’abbiamo afferrata. Ne avevamo bisogno».
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