
Cronaca / Lecco città
Domenica 19 Aprile 2020
Il medico delle emergenze
«I dati veri sono questi, è certo»
Il rianimatore Donato: «Quelli ufficiali registrano solo parte dei contagi». «Subito i i test sierologici: Veneto e Liguria li fanno già, si parta anche qui»
«I dati Istat su Lecco sono assolutamente realistici perché rispecchiano l’andamento nazionale. Si tratta di una mortalità legata alla territorialità, all’anagrafica, ma anche alle difficoltà che ci sono state nel gestire l’ondata di contagi arrivata sul territorio».
Ivano Donato, medico lecchese anestesista rianimatore dell’ospedale di Erba, non è sorpreso dalle nuove rilevazioni dell’Istituto di Statistica nazionale che ha accertato un aumento dei decessi nel nostro territorio del 153% nel periodo dal primo marzo al 4 aprile di quest’anno, cioè nelle prime cinque settimane di emergenza coronavirus, rispetto al 2019.
Una fotografia parziale
«I dati ufficiali – spiega Donato - rappresentano solo una parte dei contagi. Difficile avere certezze sul perché siamo stati colpiti meno duramente di Bergamo, Brescia o Milano. La percentuale della popolazione anziana nella nostra provincia, così come nei territori vicini, si aggira tra il 25-30% ed è certamente la fascia più a rischio. Sicuramente influisce anche lo stile di vita: nella Bergamasca, per esempio, è molto più accentuata la presenza degli anziani nei luoghi di incontro come circoli, bar, dopo lavoro e altri posti dove si può giocare a carte e leggere il giornale. C’è un ambito di comunità sicuramente molto forte. Da noi, forse, c’è più distanziamento tra un paese e l’altro, soprattutto nella zona del lago e della Valsassina».
Secondo Donato è ora fondamentale arrivare il prima possibile a poter fare i test sierologici: «Veneto e Liguria li fanno già, c’è da partire anche qui. Ci permetteranno di capire chi è venuto a contatto con il virus ma è asintomatico e chi invece non n’è mai venuto a contatto. Sono informazioni importanti per decidere come comportarsi e per ragionare sulle riaperture. Inoltre permetterebbero anche uno studio sulla permanenza dell’immunità: nell’influenza, per esempio, dura sei mesi-un anno; se in questo caso fosse più lunga sarebbe diverso, in attesa di un vaccino. Sono dati che oggi non abbiamo, stiamo navigando e lavorando a vista. Se oggi non si hanno né tampone né sierologia si è ciechi».
A seconda di quale percentuale di persone ha già affrontato e superato la malattia cambiano gli scenari: «È chiaro – continua - che se tutta la popolazione fosse già immune, ci potremmo permettere 6-8 mesi di tranquillità, con una vita relativamente normale, in attesa del vaccino. Si dovrà arrivare anche a dosare gli anticorpi presenti nel sangue: in base alla quantità di immunoglobuline M (della fase acuta) e G (della fase tardiva) è possibile capire l’evoluzione del contagio».
La paura dell’ignoto
Continuano a essere molti gli aspetti del virus che non conosciamo: «Ci sono persone che guariscono dal punto di vista clinico, ma dopo un mese hanno ancora il tampone positivo, cioè sono ancora contagiosi - ricorda il medico - C’è quindi in alcuni casi una lentezza nella negativizzazione, perché il sistema immunitario è più lento. Inoltre il tampone è accurato al 70%: abbiamo avuto falsi negativi in persone con chiari sintomi della malattia, in quel caso è necessario fare un test più profondo che arriva a livello polmonare e viene fatto solo in terapia intensiva. Solo l’incrocio tra test sierologico e tampone dà certezze».
Nel frattempo non resta che guardare avanti con prudenza: «Speriamo – conclude - che non ci sia una seconda ondata nel periodo autunnale, potrebbe essere drammatica nel caso non fossimo pronti ad affrontarla. Intanto dobbiamo avere un nuovo stile di vita: fino alla scoperta del vaccino e fino a quando non avremo i dati sierologici e i tamponi, le mascherine dovranno fare parte del nostro vestiario come fossero la nostra pelle, perché è l’unico modo per difenderci».
S. Sca.
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