Cronaca / Circondario
Giovedì 18 Luglio 2019
Crac Brambilla, la Cgil:
«Poca trasparenza»
Dopo la sentenza del Tribunale di Lecco al sindacato resta l’amaro in bocca per i posti di lavoro: «Avevamo trovato un’intesa, poi tutto è precipitato»
Una vicenda gestita male dall’azienda e continue rassicurazioni che non hanno permesso un’opportuna gestione sindacale della crisi. Diego Riva, oggi segretario provinciale della Cgil di Lecco, all’epoca a capo della Fiom, valuta così, a distanza di 5 anni, il fallimento della Trafileria del Lario di Calolzio, storica impresa di proprietà della famiglia Brambilla.
Fallimento che, nella serata di martedì 16 luglio, ha visto chiudersi con 4 patteggiamenti il procedimento penale, per il reato ipotizzato di bancarotta fraudolenta, a carico dell’ex ministro al Turismo Michela Vittoria Brambilla (un anno e 4 mesi), del padre Vittorio (un anno e sei mesi), Nicola Vaccani (due anni), prima amministratore e poi liquidatore della società nonché cognato della deputata, e Alessandro Valsecchi (due anni), cugino nonché amministratore delegato.
«L’azienda – racconta Riva - in tutte le riunione riferiva di un periodo di crisi congiunturale. Ci diceva che le soluzioni si potevano trovare, che c’era un acquirente turco che era quasi certo sarebbe subentrato. Si era quindi iniziato a utilizzare gli ammortizzatori sociali, prima la cassa e poi la solidarietà, per gestire il momento di crisi. Venivano effettuate riunioni periodiche di confronto in cui si discuteva di quali strumenti utilizzare e della necessità di applicare la cassa a rotazione. Quando poi, dalla sera alla mattina, la situazione è precipitata c’è stata grande delusione. Il giudizio a posteriori è che in quelle occasioni non tutte le carte venivano messe sul tavolo in maniera trasparente e in questo modo si è perso molto tempo. Se avessimo conosciuto la reale situazione, avremmo potuto governarla diversamente dal punto di vista sindacale».
Riva non ha certezze su come sia andata realmente la trattativa con il magnate turco Aylin Dogan: «Sapevamo solo – continua - che la trattativa per la cessione era in corso e che l’azienda voleva a tutti i costi un accordo sindacale per consegnare ai compratori una situazione non conflittuale. Ci furono lunghi mesi di confronto e di presidio da parte dei lavoratori. Infatti ritenevamo non corretta la scelta di individuare solo alcuni dipendenti che sarebbero dovuti passare alla nuova proprietà turca. Qualora non fosse stato possibile mantenere tutti in organico, chiedevamo di effettuare la selezione con criteri oggettivi. L’azienda voleva inoltre la riduzione degli stipendi e anche questo punto non ci aveva trovato d’accordo. L’intesa era stata infine trovata, ma poche ore dopo la situazione è precipitata».
La mancata omologazione del concordato portò infatti al fallimento: «Noi – conclude Riva - non abbiamo mai avuto contezza dei reali motivi per cui il concordato non sia stato omologato, né quanto si fosse arrivati vicini a chiudere la trattativa con i turchi con i quali avevamo avuto solo un incontro informale, senza mai poter aprire nessun tipo di tavolo».
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