Cultura e Spettacoli / Tirano e Alta valle
Lunedì 29 Luglio 2013
Autoritratto in versi
di Fiammetta Giugni
Legge con delicatezza le sue emozioni
nella galleria dell’amico artista Righini
e racconta la sua esistenza in equilibrio
Lascia che prima sia la poesia a parlare e si presenta con un autoritratto poetico, in piedi rigorosamente. Perché la parola poetica ha bisogno di rispetto. Fiammetta Giugni racconta, con voce sommessa ma puntuale, di sé alla galleria Alcantino di Valerio Righini a un pubblico selezionato e affettuosamente legato alla poetessa-veterinaria di Sondrio. La stessa parola Alcantino piace molto a Fiammetta, perché «rimanda alla cantina e al cantuccio, un luogo dove si sta bene». E si sta veramente bene nella galleria dell’artista tiranese.
Questa volta tocca a Giugni la cui scrittura Abramo Levi – amico comune di Giugni e Righini – aveva definito come «quel filo a piombo con il suo peso finalistico verticale che incrocia con il filo a piombo orizzontale dello sguardo». Osservando il lavoro dei muratori, si allude qui alla precisione linguistica della scrittura di Fiammetta e, nel contempo, alla sua potenza evocativa, la sua profondità. Generalmente i poeti, come gli artisti d’altra parte, sono poco avvezzi o propensi a sviscerare la propria poesia. Giugni è il contrario di ciò: legge con delicatezza le sue emozioni e con altrettanta lucidità (scientifica, potremmo dire, se pensiamo alla sua professione) e razionalità le rivela a chi la ascolta.
È il caso dell’autoritratto in cui attrae la sommità dei monti (il «sommo» come valore spirituale), anche se la nostra vita si snoda fra la continua tensione di un richiamo dell’alto e l’essere materia. Giugni ha presentato il suo ultimo libro “Per un’architettura del sé”, con cui ha vinto il secondo posto del Premio Fortini. «Qualcuno ha parlato della mia scrittura come materica, plastica, che costruisce ed edifica – ha detto -. La parola poetica ha la capacità di costruire e architettare un mondo, è un soffio, incide sulla realtà, non solo sulla carta. Anche se non viene portata in pubblico, la parola che amo scrivere comincia ad agire nel momento in cui viene scritta. La parola non è del poeta, chi scrive offre i mezzi, le mani, lo stilo e lo stile perché la parola possa liberarsi per venire al mondo. E il mondo ha bisogno di poesia per non implodere».
La raccolta fa riferimento alla casa a Colda ereditata da Giugni e che era stata oggetto di diatribe famigliari in precedenza. «Per me è proprio questo abitare la ripa, questo continuo sforzo di equilibrio, questo perenne abbrivio fra la salita e la discesa, che dà lustro alla mia povera casa di sassi - si legge -. Perché abitare la ripa diventa pian piano un essere abitati dalla ripa, sentire dentro lo sforzo dell’equilibrio e la tentazione continua dell’abbrivio».
Fra dialetto, italiano e latino si dipana il racconto dell’involt, «regno dell’umido, febbricitante fermentazione dei muri», della cucina gialla, della camera dei nonni e quella del papà cui svela: «L’amore lo faccio anche così, colmando i vuoti con la lingua, con la casta ombra della scrittura».n
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