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Giovedì 24 Dicembre 2015
“Gesù mi disse che sarei tornato a giocare
Così sono riuscito a sconfiggere il cancro”
Una bella storia di Natale raccontata con tanta emozione dal protagonista, l’attaccante e bomber brasiliano del Calcio Lecco, Carlos França
Carlos França per tutti è il bomber a “doppia cifra”. Un giocatore che da quando gioca in serie
D non è mai andato sotto i 10 gol a stagione. Un campione, seppur del calcio dilettantistico. Ma la sua vittoria migliore non è mai stata legata al calcio. E neanche a qualcosa di tangibile. È una vittoria sulla morte. In tutti i sensi. Fisica e spirituale. Prima di scoprire cosa intendiamo, in questa bella storia di Natale, bisogna avere la pazienza di leggere il lungo e meraviglioso racconto del rapporto di Carlos França con Gesù, proprio nel giorno della Natività.
Carlos, raccontaci dove comincia tutta la tua storia.
Sono nato a Jaguariuna nello stato di San Paolo, una città di 50mila abitanti, come Lecco, il 1° gennaio 1980. È un micropolo industriale a 120 chilometri da San Paolo. Io nasco in una famiglia di tre figli, cresciuti da papà Celso e mamma Marta, la cui famiglia è di origine italiana, di Terni. A febbraio di quest’anno mio padre è morto ed è rimasta solo mamma.
La tua non è una storia di povertà, ma normalissima, vero?
Direi di sì. Mio padre era professore di educazione fisica in pensione e mia madre ha fatto tanti lavori: l’ultimo nella piccola fabbrica di travetti per pavimenti per la quale, dopo la pensione, si era impegnato mio padre. A noi non è mai mancato nulla. Io sono loro grato perché ci è stato sempre dato il possibile. Non avanzava molto, ma non ci mancava niente.
Il fratello Cassius (un anno meno) e la sorella Carla (tre anni e mezzo più grande), lavorano nell’azienda di famiglia.
E tu, Carlos, che vita hai fatto?
Ho sempre giocato a pallone. Iniziai a giocare nell’unica squadra che c’era in paese, a sei anni. Giocai lì fino agli 11 anni. Poi nell’Fc Guaranì, che aveva il settore giovanile migliore del Brasile; a 13 anni passai al Sao Paulo; a 15 anni al Santos dove ho fatto tutto il settore giovanile fino ai 21 anni con il primo contratto professionistico. Mai giocato con il Santos in prima squadra, ma sono stato dato in prestito in serie A2 dai 19 ai 21 anni. Fino ai 24 quando, nel 2004, sono venuto in Italia per farmi riconoscere la cittadinanza. Allora facevo il trequartista, il centrocampista.
Nel 2004 arrivi in Europa, in Spagna.
E lì succede tutto…
Nel 2005 avevo vinto il campionato di serie D con la Ce Europa di Barcellona. Giocavo da terzino sinistro. Nel 2006 dopo 22 partite e 6 gol iniziarono i dolori forti alla schiena. Mi fermai, non riuscivo ad allenarmi. E a settembre del 2006 scoprii un tumore, un osteoma, un cancro alle ossa nell’undicesima vertebra toracica. Cresceva verso l’interno per cui avevo dolori lancinanti. Mi operai a gennaio 2007 con un intervento delicato di quasi quattro ore. Mi tolsero un tumore da un centimetro di diametro. Da lì il calvario: un anno e mezzo di chemioterapia. Poi dieci mesi di riabilitazione dalle 9 alle 17 in clinica. Non ce la facevo più.
Cosa ti diede la forza di reagire?
Gesù. Avevo perso le forze fisiche e psicologiche. Non sapevo a chi rivolgermi. Avevo però conosciuto Camilla, che sarebbe diventata mia moglie, e lei mi cominciò a parlare di Gesù. Lo faceva da prima della malattia, in verità, ma non l’avevo mai ascoltata. Non mi interessava. Era poco prima del tumore. Quando mi venne quella terribile malattia, mi tornarono in mente le sue parole. Quando non ce la facevo più, sentivo dentro di me un qualcosa che mi diceva di non mollare. Era il mio primo incontro con Gesù. Mi consentì di non rendermi conto del problema serio che avevo. I dottori non mi davano sicurezza sul poter tornare in campo. Ma Gesù mi disse: “Tornerai a giocare e testimonierai agli altri cosa posso fare io nella vita di chiunque”. È lì che ho capito che dovevo andare in chiesa ma soprattutto avere una relazione intima con Gesù. E da lì ho trovato forza, coraggio e sono riuscito a tornare in campo. Contro le previsioni di tanti medici. La mia vita non è solo cambiata nel calcio, ma in tutte le vicende della vita. In quella sentimentale, con i fratelli, i genitori, gli amici. Ed è cambiata anche la mia vita economica. Sono guarito completamente.
L’incontro con Gesù è la svolta. Ma tu non vuoi farti chiamare né cattolico né protestante o evangelico. Perché?
Perché sono cristiano e basta. Non mi piace dare titoli alla mia fede e neanche alla mia religione. Sono cristiano e credo in Gesù e in quello che ha fatto sulla croce per noi. Cerco di vivere secondo quel che mi dice la Bibbia. La religione oggi provoca più male che bene, per cui preferisco parlare solamente di Gesù e del cristianesimo senza altre etichette.
Cos’è il Natale per te?
Il Natale è Gesù Cristo. In questo tempo si celebra la nascita di Gesù, ovvero il dono più importante mai fatto da Dio all’uomo. Abbiamo avuto la capacità di riconciliarci con lui. E Natale è il giorno in cui tutti pensano a Gesù e il Natale è lui. Ha rinunciato a tutti i privilegi per dare la vita e lasciarci la via sgombra verso il Padre. Giovanni 14,6. Viva Gesù.
Carlos passerai il Natale lontano dalla famiglia?
Sì, quest’anno starò lontano da mia moglie Camilla e dai miei figli Gianluca (4 anni) e Giulia (2), nati entrambi in Italia. Mi dispiace non essere insieme a loro. Ma non credo nel caso: tutto coopera per il bene. Se ho deciso di rimanere a Lecco e non tornare con loro in Brasile è per guarire in fretta dallo strappo muscolare che ho subìto.
E che dono ti aspetti sotto l’albero?
Il regalo è essere qua a fare un’intervista del genere e trasmettere così il mio amore per Gesù agli altri. Spero che possa toccare il cuore di qualcuno che legge. E convertirlo.
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