Tra gli eventi legati alla commemorazione delle foibe uno dei più importanti è certamente l’immagine del presidente della Repubblica italiana Mattarella e del capo di Stato Sloveno Borut Pahor che si tengono per mano davanti al sacrario di Basovizza, sul Carso, il 13 luglio 2020. Ieri i due uomini si sono ritrovati all’Università di Trieste per ricevere entrambi la laurea honoris causa in giurisprudenza.
Per Mattarella è stata l’occasione per tenere un autentico discorso di pace, intesa non certo come parola vuota e vacua, non esente dalla retorica, ma come autentico progetto calato a sua volta nel cantiere di costruzione europea. Un progetto sempre più urgente e imprescindibile, alla luce della brutale invasione russa dell’Ucraina. Ciò vale non solo nei confronti di Ucraina, Moldova e Georgia, ma soprattutto dei Paesi dei Balcani Occidentali che oltre venti anni fa hanno iniziato questo impegnativo percorso di integrazione.
L’integrazione degli Stati europei, intesa come “somma delle minoranze”, iniziata nel 1950 con un trattato commerciale, è l’unica strada per conseguire questo risultato. Del resto i padri dell’Europa, reduci da una e alcuni da due guerre mondiali, lo sapevano bene. Il Vecchio Continente ha vissuto 80 anni di pace: nella sua storia non era mai successo se pensiamo alle scorrerie, alle violenze e ai conflitti che lo hanno insanguinato per secoli. L’Europa è diventata spazio di promozione dei diritti, di una cultura condivisa «che si nutre delle diversità e ne fa punto di forza».
Una delle principali cause dei conflitti moderni è soprattutto il nazionalismo esasperato che dà luogo a violenze, guerre ed esodi. Una lezione che l’umanità sembra non aver appreso visto che 80 anni dopo ci troviamo nuovamente sull’orlo del baratro.
Nel discorso di Mattarella all’Università di Trieste brilla anche la concezione degli atenei come libere isole di pensiero. Il ricordo dell’egemonia fascista negli atenei è ancora vivo. Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 agosto del 1931 apparve il regio decreto numero 1227 che all’articolo 18 obbligava i docenti universitari a giurare devozione «alla Patria e al Regime Fascista». Su 1225 professori solo 12 rifiutarono il giuramento pur sapendo di dover subire, quale inevitabile conseguenza, il licenziamento.
Scrisse Gaetano Salvemini, a quel tempo già esule in Francia nel commentare quel decreto: «La dittatura fascista ha soppresso quelle condizioni di libertà mancando le quali l’insegnamento universitario della Storia perde ogni dignità, perché deve cessare di essere strumento di libera educazione civile e ridursi a servile adulazione del partito dominante».
Ma il capo dello Stato, che prima di salire al Quirinale era docente universitario, ha parlato anche delle agitazioni negli atenei italiani e della loro dimensione internazionale: «Le Università sono sempre state luogo del libero dibattito, della critica e anche del dissenso nei confronti del potere. Dibattito, critica e dissenso collegati tra gli atenei di tutti i Paesi, al di sopra dei confini e al di sopra dei contrasti tra gli stati. Se si recide questo collegamento, questo prezioso scambio di riflessioni, di collaborazioni, di esperienze, non si aiutano i diritti, non si aiuta la libertà né la pace, ma si indebolisce la forza del dibattito, della critica e del dissenso. Si aiuta il potere, quello peggiore, che ha sempre cercato di tenere isolate le università del proprio Paese, di impedirne il collegamento con quelle oltre confine».
Gli atenei - dove la polizia per tradizione non entra - sono visti come “poleis” della cultura. Gli studenti, i professori in un certo senso non sono italiani, restano cittadini del mondo. Nessuna ideologia nazionalista o populista può imbrigliarli. Sono i centri propulsori di un progresso sociale antidoto alle autocrazie.
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