Trivelli: «Lecco attrae più medici rispetto
ad altre Asst. Il problema delle liste d’attesa? Alleiamoci con il privato»

Intervista al direttore generale dell’Asst di Lecco che rivendica il buono stato di salute della sanità lecchese

Marco Trivelli, direttore generale dell’Asst di Lecco, rivendica il buono stato di salute della Sanità lecchese. E lo fa portando dati. Lecco attrae più medici e non perde, come invece fanno le altre Asst, infermieri. Liste d’attesa? Dobbiamo allearci con il privato, mantenendo la primazia del pubblico. Merate? È stata fraintesa l’idea che Asst ha del Mandic. Sarà potenziato.

Dottor Trivelli, partiamo dalla base. C’è carenza di personale. Come risolverla? “La carenza di professionisti sia in ambito medico che professionistico è nazionale. Ma in questo momento Lecco almeno sul fronte medico sta vivendo un ritorno di interesse. I nostri concorsi più recenti sono stati ampiamente partecipati e anche per i prossimi concorsi sarà così. Stiamo segnando quasi venti medici in più. E al concorso per cardiologi hanno partecipato in sessanta. Dal punto di vista degli infermieri, invece, mentre a livello regionale c’è un calo noi stiamo mantenendo costante il numero dei collaboratori infermieristici. Sulle case di comunità abbiamo inserito dieci figure nuove rispetto all’esistente e questo comincia a essere un numero interessante che ci permetterà di essere più incisivi nel prossimo futuro”.

Purtroppo però gli infermieri sono sempre più rari. I posti messi a bando per entrare nella laurea infermieristica non sono stati coperti tutti. “Abbiamo una carenza che durerà quindici anni e dipende in parte dalla durezza del lavoro infermieristico non riconosciuto contrattualmente né da un punto di vista economico né dal punto di vista del possibile sviluppo di carriera. Poi c’è anche una carenza demografica. Sta andando in pensione la classe 1964-65 che era forte di più di un milione di nati e stiamo assumendo la classe 2001-2002 che è composta da 500mila nati. È evidente che non è possibile colmare il gap”.

Parliamo di pazienti cronici e acuti. La sanità pubblica può davvero arrivare dappertutto? E le liste d’attesa? “In ospedale a Lecco abbiamo 600 ricoverati. Ma 59.400 malati sono fuori dalle nostre mura. La malattia, ripeto, è una cosa seria. Se vogliamo curare per intero tutti, allora dobbiamo allearci con il privato. Umilmente ma con realismo. Le Rsa per esempio sono un interlocutore strategico per il futuro con i suoi 2mila posti letto. E altrettanto strategica è l’assistenza domiciliare. Dobbiamo fortificare questi servizi dando la nostra assistenza specialistica per tutto il resto”.

Mettiamoci anche il problema violenza in corsia e in Pronto Soccorso. Liste d’attesa incolmabili anche perché si rischia di perdere personale. “Le tensioni ci possono essere. E anche il nervosismo dei pazienti in attesa prolungata. Certi comportamenti ci sono, ma complessivamente il lecchese è un’area molto civile, con grande senso delle istituzioni anche rispetto ad altre parti della Lombardia e questo è un merito del territorio. Ma c’è un approccio culturale diffuso che è quello della percezione della malattia come qualcosa da aggiustare e l’accesso alle cure come un qualcosa da acquisire. C’è la banalizzazione del percorso di cura che è la premessa di comportamenti e approcci esigenti anche quando la risposta di cura non può essere immediata o risolutiva. Fare una diagnosi anche di cose apparentemente semplici, presuppone tempo e non banalizzazione. Fare sanità è una cosa seria. Non banale”.

A proposito. Si è banalizzata la questione della chiusura del Punto Nascite di Merate? È davvero una ragione economica quella della chiusura? “Sotto i 500 parti le ostetriche seguono pochi parti. Avevamo cinque ostetriche giovani che non hanno fatto dieci parti a testa. Hanno perso due anni di professione. E non possono garantire sicurezza alle donne che assistono. Per poter essere capaci bisogna avere casistica. E la medicina si specializza sempre di più per cui bisogna fare tanta pratica. Per questo ci vuole la centralizzazione: non si può andare sotto certi livelli di casistica e non vale solo per l’ostetricia ma per la chirurgia. In oncologia non si possono fare operazioni alla mammella se non se ne fanno almeno 80 all’anno, per i tumori al seno. Non si possono fare pochi casi e sostenere che quel reparto è sicuro. Non perché l’abbiamo deciso noi, ma perché sono le linee guida nazionali e internazionali che lo impongono. Non c’è nessun problema economico dietro quella chiusura. La preoccupazione era solo garantire la maggior sicurezza possibile alle donne di Merate”.

Merate non è depotenziata dunque? “Merate è una struttura forte di più di cento medici. Ha qualche difficoltà di reclutamento come tutte le strutture intermedie di questo tipo, ma ha più di cento professionisti, uno spettro di specialità ampio. È un ospedale che può e deve restare per acuti. Alcuni segmenti notevolissimi come le cure palliative pediatriche, servono non solo Lecco ma anche la Valtellina e si lega a centri nazionali. Ma anche altri servizi specifici come la parte interventistica della terapia del dolore: a Merate concentreremo la parte della calcolosi urologica. E a Merate è nata e vive la più grande struttura di assistenza domiciliare di Regione Lombardia ovvero il dipartimento delle Fragilità. Merate ha una grande effervescenza”.

Ma bisogna spostare davvero l’urgenza ostetrica da Merate a Lecco? “Il 98,5 per cento degli accessi di Pronto Soccorso è gestito a Merate. Si trasferiscono per motivi di sicurezza le urgenze ostetriche. 306 pazienti su circa 30mila accessi. Un modo intelligente e prudente di trattare i pazienti. Non è possibile replicare il modello di trent’anni fa dove tutto era molto diffuso perché era tutto molto più semplice e meno sviluppato. Per alcune patologie bisogna andare nei centri di eccellenza”.

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