Cara Provincia,
nel seguire leggendo i giornali le tragicomiche vicende della Lega, con lo tsunami politico-economico che ha colpito la Bossi Family, non ho potuto fare a meno di sorridere nel ritrovare riportata una vecchia intervista del senatore Gianfranco Miglio, in cui il professore sparava a zero sull’Umberto con singolari doti di preveggenza.
Nel 1999, l’ideologo della Lega, forse l’unico del partito in tutti questi anni ad avere avuto realmente solide basi culturali, dichiarò a Lorenzetti del “Giornale” che «Bossi era un politico, quindi un ignorante. E da ignorante l’ho sempre trattato».
Ma Miglio, che vantava origini lariane fin dall’anno Mille, in quella chiacchierata andò senza freni, ricordando quando la Lega intascò 200 milioni dalla Montedison e il capo era disperato e poi bollando il senatur di essere totalmente autoreferenziale. «Bossi insegue soltanto la sua fortuna personale. Come tutti i politici italiani, punta a contare non a comandare», disse rammaricandosi di essere «andato d’accordo per tre anni con un tipo così».
A rileggere oggi queste profetiche parole - nell’intervista Miglio parla anche dell’idea di un golpe politico di Maroni ai danni di Bossi - si rileva come il vizio italico di farsi gli affari propri in casa altrui sia comune a Roma come a Gemonio, alla faccia dei proclami e delle finte rivoluzioni come quella leghista.
Giacomo Affinati
Lecco
Caro Affinati,
leggendo le dichiarazioni d’epoca di Miglio si percepisce la lucidità dell’analisi politica e umana di una persona che, condivisibile o meno sul piano delle idee, vantava un acume fuori del comune, oltre alla conoscenza profonda “dei suoi polli”. La malinconica fine di Bossi e del suo entourage, vittime di se stessi e della sete di potere comune a tutti i politici da che mondo è mondo, è una tragicommedia dal finale prevedibile, le cui radici affondano lontano, nella terra inquinata di Tangentopoli.
Vittorio Colombo
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