Ora il commento sui risultati delle elezioni amministrative, soprattutto a livello nazionale, è un susseguirsi di numeri che certificano il successo o l’insuccesso di un candidato e più ancora la crescita o decrescita relativa dei partiti maggiori. L’attenzione in più casi si concentra sui ballottaggi del 19 giugno, che saranno determinanti nell’individuare meglio vincitori e vinti, anche se la propensione degli analisti politici italiani finisce sempre per ingenerare non poca confusione sui dati reali, quasi che la categoria degli sconfitti fosse per definizione bandita dai bilanci finali.
I comuni della provincia di Lecco in cui si è votato non fanno eccezione, ma anche chi con grande impegno e programmi di immediata concretezza è riuscito a convincere il proprio elettorato, in qualche caso rovesciando la situazione preesistente, come è successo per esempio a Varenna, non deve sottrarsi a quello che negli anni sta diventando il problema centrale: la flessione inarrestabile dei votanti.
Il rapporto più stretto che lega elettori ed eletti in comunità medio-piccole, l’interesse che dovrebbe spingere entrambe le componenti a un gioco di squadra, a una interazione basilare per la crescita delle realtà locali, si sfrangia a priori nel progressivo calo di partecipazione. Passare dal 74% di votanti delle ultime elezioni all’attuale 64% è il segno inquietante di una disaffezione non tanto nei confronti della politica, come normalmente si dice, ma, peggio, di un disinteresse verso la gestione della cosa pubblica, cioè di un bene che appartiene a noi tutti e che ci dovrebbe spingere a ben altre e più consapevoli scelte.
Abbiamo da poco festeggiato, o almeno ricordato, i settanta anni della Repubblica, quando per la prima volta fu concesso il diritto di voto anche alle donne e la percentuale di elettori raggiunse l’89,1 %, la quasi totalità degli Italiani, che pur provati da anni di guerra, vedevano nella ritrovata pace e in quella prima votazione una vera occasione per ricominciare, ciascuno secondo una sua ipotesi, ma tutti convinti che non ci si potesse sottrarre a quello che era non solo un ritrovato diritto, ma anche un importante “dovere civico”. Forse pochi ricordano che negli anni successivi a quel referendum e per molti a seguire chi non votava alle elezioni politiche o amministrative e non produceva una adeguata giustificazione vedeva il proprio nome iscritto per quattro anni nel casellario giudiziario. Era forse una misura poliziesca, ma sottintendeva la volontà da parte del legislatore di impedire con ogni mezzo al singolo cittadino di rinunciare a una responsabilità sentita come primaria. Un paese cresce e si evolve, se tutti sono disposti a dare il loro contributo, anche solo scegliendo dei validi rappresentanti. E quello che vale per una nazione, diventa vitale per le nostre piccole comunità, dove votare significa garantirsi un futuro.
Ecco forse è proprio questa elementare regola che il nostro territorio dimostra di aver sottovalutato, scegliendo di non presentarsi ai seggi per motivi che vanno dalla protesta, alla saturazione, all’indifferenza, alla inconfessabile scelta di non rovinarsi un ponte festivo. Restano, per nostra consolazione, quei due terzi di abitanti della nostra provincia a mantenere con tenacia, senza cedere al disincanto, l’idea che la politica, se onesta e partecipata, può cambiare il mondo in cui quotidianamente viviamo, migliorarlo o almeno difenderlo da un degrado altrimenti irreversibile.
E dunque ai neoeletti, oltre alla realizzazione delle promesse e dei programmi, spetterà il difficile compito di richiamare a un gesto di responsabile condivisione, irrinunciabile in un paese democratico.
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