Ne scriviamo di idiozie sui giornali. E ne sprechiamo di carta. E quanto tempo perso, quanti chili di fuffa riversati nel meandro dei nostri luoghi comuni, delle nostre banalità, del nostro fariseismo duepuntozero. Passiamo le giornate a gonfiare e rimbalzare e compendiare le pagliacciate di statisti di destra e di sinistra in campagna elettorale, le retoriche tutte comprese di attricette di serie D che lamentano chissà quali vessazioni di chissà quali Sirrush sanguinari, il cialtronismo a pagamento dei guru della fogna del web e, poi, quando arrivano le notizie vere non se ne accorge nessuno. O quasi nessuno.
Qualche giorno fa Giuliano Ferrara ha pubblicato su “Il Foglio” un editoriale memorabile, feroce, commovente su una sentenza della Corte di Cassazione che, in un paese normale, avrebbe aperto un dibattito etico straordinario e lacerante e che invece, nella repubblica delle banane, del Rosatellum e del Festival, è stata accolta con il più assordante dei silenzi. La terza sezione civile ha stabilito un congruo risarcimento a una madre – 125 mila euro – e a un padre – la cifra deve essere ancora quantificata – per la nascita indesiderata di un figlio a seguito di un errore medico. La coppia aveva deciso, in maniera del tutto legittima secondo la legge 194, di interrompere la gravidanza, ma i medici non obiettori “non sono riusciti a raschiare via la creatura formata nel seno della mamma e a gettarla tra i rifiuti ospedalieri, come dice la norma”. Tanto quello non è ancora un uomo, vero? E così il bimbo è nato lo stesso e i genitori hanno dovuto accollarsi spese e fardelli connessi al suo mantenimento. Da qui la richiesta - accolta - di risarcimento danni. Punto.
Ora, è vero che le sentenze dei giudici, piacciano o non piacciano, si rispettano. Ma esiste ancora la libertà - forse - di dire che questa sentenza è una roba che schifo, che fa ribrezzo, che fa vomitare. E rappresenta uno dei picchi più bassi nei quali da tempo si è avvitata la nostra società marcia e fangosa, la nostra cultura flaccida e inerme. E non è questione di mettersi a giocare con i tecnicismi, l’analisi comparata dei codici, la volontà dei due genitori, che si sentivano troppo vecchi per avere un figlio, e tutto il resto del latinorum con cui è inzuppata questa faccenda. Il punto nodale, il nodo scorsoio, il baratro esistenziale è un altro. Ed è tutto etico. La nascita indesiderata di un essere umano non viene valutata come un miracolo, una gioia, una lieta novella, ma come un danno da risarcire. La vita di un bambino è un danno. La sua morte un beneficio. La vita è la cosa sbagliata. La morte la cosa giusta. Con tanto di ragionieristico parametro commerciale a piè di lista.
Questa è la fine di una società. La fine di una civiltà. E non è affatto questione di fede, ateismo o agnosticismo. Ferrara ricorda che laici inossidabili come Bobbio, Pasolini e Natalia Ginzburg fossero adamantinamente contrari all’aborto e, infatti, solo un cretino può pensare che la possano pensare così soltanto i cattolici, apostolici, romani e praticanti, perché il concetto dirimente della sacralità della vita, della sua intangibilità assoluta, del suo legame al mistero può albergare anche in chi – proprio come chi scrive questo pezzo, ad esempio – pratica un po’ sì e tanto no, non frequenta oratori, non ha mai fatto il chierichetto o l’agit prop dell’Azione cattolica o di Cielle e si domanda perché quello lì con la barba – al quale, in fondo, crede - se ne stia sempre assiso tra le sue torme di cherubini e serafini ma né parli né faccia segno, qualsiasi cosa accada. Perché anche il silenzio di Dio è un gran bel tema.
Certo che questa cosa deve essere normata, certo che deve esserci una legge che la regoli, ma l’obbrobrio, l’abisso è confermare per via giuridica la podestà della “dittatura dell’io e delle sue voglie”, denunciata dal teologo Joseph Ratzinger. E che è cristallizzata in quel lapsus freudiano - ricordato da Ferrara - scappato una volta al più amato e trendy e stiloso dei presidenti della storia degli States, Barack Obama, quando definì l’aborto “un incidente grave”, una di quelle cose che non avrebbe mai voluto capitasse alle sue figlie. In quella frase dal sen fuggita c’è dentro tutto. Tutta un’epoca. Tutto un declino. Tutta una resa. Il tramonto dell’Occidente, che marchia l’aborto non come la tragedia assoluta, la morte a sua insaputa di un essere vivente, ma come diritto umano universale. Noi non abbiamo alcun diritto sulla vita degli altri. Alcun diritto. Anche se siamo padri e madri, questa è la verità. Quella vita non è nostra. La vita di un altro non è nostra, anche se è quella di un figlio. E’ un bene indisponibile. E’ una cosa altra che nasce fuori da noi - da un Dio onnisciente? dal caos degli elementi? ognuno la pensi come vuole – e di cui noi siamo un mero tramite.
Tutti hanno vissuto, vivranno o stanno vivendo magari proprio in questi giorni, magari proprio in queste ore, l’esperienza grandiosa e terribile dell’accompagnamento di un proprio caro verso la fine. Beh, dentro quello strazio solitario e inaccettabile sgorga un motivo di gioia: la persona che agonizza davanti a te è arrivata a quel punto perché un giorno è stata gettata nell’esistenza e ha percorso tutto il suo cammino, grande o piccolo che sia stato, lungo i sentieri del mondo. E questo perché è nato e nessuno l’ha buttato a due mesi dentro un secchio assieme agli altri milioni di milioni che hanno fatto quella fine. Beh, se quei milioni di milioni ci mancano - con tutti i loro difetti, le loro meschinità, le loro inadeguatezze: chissà chi erano? - allora forse siamo ancora umani. Se invece il mercimonio è ormai sdoganato, è diventato patrimonio comune, orizzonte di riferimento, allora vuol dire che il nostro destino è andare avanti a strisciare sulla superficie della terra, avanti e indietro, fino a quando il patto stipulato con il creatore sarà concluso e il nostro nome cancellato per sempre dal libro della vita.
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