
Sappiamo grazie a una mostra del 2015 che Giorgio De Chirico, il “pictor optimus”, anche se cooptato da una “rossa valkiria” per una curiosa cena “in altura” a base di rane e non proprio esaltato dall’impatto traumatico per un imprevisto temporale lecchese, qualcosa della nostra città o almeno del suo contesto di monti di manzoniana memoria è riuscito a intravedere.
Con più pazienza e fortuna, se oggi tornasse, scoprirebbe con stupore che possiamo vantare nel cuore della nostra piccola città una di quelle metafisiche Piazze d’Italia che lo hanno reso celebre. Come definire in altro modo, se non ricorrendo all’aggettivo metafisico, quella grande porzione di Piazza Garibaldi, finalmente libera da macchine, ma inevitabilmente desertificata anche per il concorso su due lati di edifici per diverse ragioni inutilizzati e inutilizzabili? Piace e sorprende quell’inattesa aura di sacralità di cui persino la statua dell’Eroe dei Due Mondi sembra godere per naturale estensione, ma la sensazione per chi guarda, soprattutto quando cala il buio serale, è quella di un limite da non valicare. Se proprio si deve procedere a una sorta di profanazione, meglio farlo di giorno, in folla, magari seguendo gli effluvi golosi di una miriade di banchetti pieni di cioccolato, novello “pifferaio magico di Hamelin” capace di incantare lecchesi e turisti con il suono del profumo.
E a proposito di profumo, un De Chirico che decidesse di ampliare l’esplorazione a via Roma e Via Cavour scoprirebbe che Lecco, quasi a espiare il sentore rude e ferroso di un passato industriale, si avvia sempre più a diventare la città delle profumerie, e non di piccoli spazi già presenti un tempo all’interno di una variegata offerta merceologica (alimentari compresi), ma veri e propri estesi market non dissimili, anche per ampiezza, dalle tipiche strutture già esistenti nei tanti centri commerciali.
Ma per tornare alla pittura, Lecco si sta ritagliando un’immagine multicolore, una vera anche se forse involontaria tavolozza urbana. Agli “emanatori di luce” da marciapiede (come diversamente chiamarli?), bianco-lattiginosa a regime notturno, variopinta nella fase iniziale, si affianca il verde dell’umido, il blu del vetro, il giallo della carta, tutti ordinatamente disposti a scandire i tempi di una improbabile “Ville Lumière” accesa per sparuti e ostinati nottambuli.
Insomma, anche senza scomodare De Chirico, è evidente che Lecco e il suo centro stanno cambiando aspetto. Ma segnalarlo non è l’ennesima manifestazione di un facile “mugugno” (vocabolo ligure diffusosi e italianizzatosi durante la Prima guerra mondiale, a segnalare una reazione di malcelato disagio dei combattenti), ma il comprensibile senso di disorientamento che coglie molti dei nostri concittadini di fronte a realtà di cui non percepiscono totalmente il senso. Non è questa una malcelata accusa alle istituzioni, piuttosto un modo tra allarmato e accorato per condividerne idealmente le responsabilità.
Una città non cambia per le decisioni di pochi amministratori, che hanno piuttosto il ruolo di catalizzatori, possono cioè favorire tempi e modi di accelerare reazioni che avverrebbero comunque. Una comunità di abitanti ha il dovere di prendere sempre più coscienza dell’insieme che forma e del contesto in cui crede che tale processo possa e debba avvenire. Oggi forse i lecchesi non hanno piena coscienza di vivere una fase di grandi cambiamenti e, anche per questo, hanno perso parzialmente la capacità di immaginare la loro città, di capire che cosa Lecco oggi è, per decidere che cosa Lecco sarà.
Se De Chirico tornasse a Lecco... No, non è questa l’aspettativa auspicabile. A dover tornare nella loro città con una nuova consapevolezza sono i lecchesi. Tutti i lecchesi.
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