Quelli che come me, storditi e disgustati dai passaggi di dieci metri in orizzontale e dalla costruzione dal basso, hanno goduto per il Milan di Nereo Rocco con Rivera, Maldini padre, Altafini e per il Milan di Arrigo Sacchi, con Van Basten, Gullit, Maldini figlio, quelli che hanno ammirato (obtorto collo) l’Inter di Helenio Herrera, con Sarti, Burgnich, Facchetti e poi l’Inter di Mourinho e gli eroi del Triplete, quelli che di contraggenio hanno applaudito la Juventus con Boniperti, Sivori, Charles e poi quella di Trapattoni con Platini, Boniek, Bettega non possono non sbellicarsi davanti alla cicogna, ancorché virtuale, che vorrebbe donare al Paese, al nostro Paese, una versione vintage e taumaturgica del Centro con Romano Prodi, Graziano Delrio (l’affossatore delle Province), Ernesto Maria Ruffini (l’ex gendarme delle tasse), Pierluigi Castagnetti, Silvia Costa (quote rosa) che al solo sentirli scricchiolano le ossa e, più del riformismo, evocano il reumatismo.
Chissà che brividi lungo la schiena di Maurizio Lupi che rischia di vedersi soffiare il seggiolino che il condomino meno millesimato si porta appresso per trovar posto nella stanza delle assemblee del caseggiato. E senza aprir bocca neppure alle “varie ed eventuali”.
Ma dove crede di andare questo manipolo di superstiti che tra l’altro, in quanto medaglie al petto, a Vannacci gli fanno un baffo?
Esaminiamo il più illustre della ciurma: Romano Prodi ha attraversato la prima, la seconda e la terza Repubblica, nella torre eburnea riservata all’economista di rango (merce rara nella fauna democristiana), all’emiliano pacioccone e bonaccione, ma, racconta la cronaca, vendicativo con chi si è permesso uno sgarbo. Ha vinto per due volte le elezioni politiche, la seconda battendo Silvio Berlusconi per un pugno di voti, dopo che i sondaggi lo davano trionfatore come Fausto Coppi contro Malabrocca, la famosa maglia nera del Giro d’Italia.
A non dire, soprattutto, della “discarica” dei centouno che gli hanno rifiutato il Quirinale per il quale erano già pronte le valigie da Bologna.
Chi scrive lo ha intervistato dopo una visita celebrativa alla Moto Guzzi a Mandello il 15 settembre 1996 (reduce da un incontro con Les Cultures), nelle vesti di presidente del Consiglio, atto primo, ricavandone l’impressione di un personaggio non brillante, ma preparatissimo, informato, curioso, ancorato ai valori del cattolicesimo democratico, sicuro di sé al punto da farmi pensare che gli sarebbe piaciuto che lo chiamassero “Il Migliore”, come Palmiro Togliatti.
Ora, pensare che questa banda non certo di scappati di casa, ma semmai in libera uscita da una RSA, possa catturare il voto degli astensionisti e dei giovani a me fa tenerezza, come quando incontrai un mio vecchio compagno di scuola che si ostinava a cercar funghi in una vigna della Valtellina.
Ma l’esperienza di Renzi e Calenda, andata in frantumi, come capita sempre più spesso a coppie che si formano per opportunismo e scoppiano per incompatibilità di carattere, non li mette in guardia?
Eppure i due baldi e fumantini cinquantenni sono tutt’altro che sprovveduti e avevano le carte in regola per un terno secco, se non per la tombola.
Siamo alle prese ancora con il tormentone del Centro: se sapessi destreggiarmi con le note vi assicuro che avrei pronto un brano per Sanremo: non vincerebbe il premio della critica, ma di sicuro sarebbe la più comica in gara.
Quale ricetta si inventano per prendere per la gola elettori inappetenti, quale calamita capace di attrarre una fascia di cittadini che vada oltre lo zero virgola?
Non c’è bisogno di possedere la patente di storici per ricordare che la DC, mandataria con rappresentanza del mondo cattolico, faceva il pieno quando votava il 70% degli aventi diritto e i cattolici toccavano la stessa quota nella popolazione italiana. Oggi, come si sa, da Aosta a Lampedusa, la partecipazione al voto non arriva al 50%, i cattolici sfiorano il venti e i praticanti il dieci.
Venuto meno quel formidabile collante, cadute le ideologie sotto la scure di Tangentopoli, il popolo è diventato elettoralmente fluido e cambia casacca al ritmo dei calzini.
Il Renzi del 40% alle Europee, il Salvini del 34%, i grillini oltre il 30% e Giorgia Meloni che moltiplica il consenso partendo dal 4%, documentano una volatilità del voto che non lascia spazio, neppure di testimonianza, a chi prova a cavalcare un’onda in un mare piatto che non si lascia certo increspare da quel mantra “degli interessi diversi, ma non contrapposti”, che sotto il segno della DC metteva insieme l’operaio e il padrone, il bidello e il professore, l’infermiere e il primario, il sindacalista e l’imprenditore, il cattolico e il laico, l’analfabeta e il dotto e via via componendo un elefantiaco ossimoro, dominatore della foresta.
In quella giungla di posizioni, dove la giustizia sociale stava in cima alla gerarchia delle priorità, mai sarebbe capitato di assistere al più osceno spettacolo del secolo: il ministro Luigi di Maio, che dal balcone di palazzo Chigi decretava l’abolizione della povertà.
Ma và a ciapà i ratt.
Per nostra fortuna non vedo in chiave locale stralunati e velleitari proseliti folgorati sulla via del Romano (nel 2025 compirà ottantasei anni) anche perchè, e la tristezza mi afferra senza tregua, alcuni interpreti eccellenti di quella stagione ci hanno lasciato. Ricordo quelli a me più vicini: Guido Puccio, Giulio Boscagli, Cesare Fumagalli, Plinio Agostoni, Ferruccio Favaron e vi assicuro che avendoli frequentati, quasi tutti fino all’ultimo respiro, mi sento di garantire che l’idea di un Centro 2025 l’avrebbero sepolta con una risata omerica o con un ghigno andreottiano. Ve la immaginate voi una nazionale di calcio a trazione emiliana con il trio Prodi, Delrio, Castagnetti in attesa dell’oriundo Paolo Gentiloni (che “parlandone da sveglio”, come cita un collega, già viene invocato come il federatore pronto a sostituire il presidente Mattarella nel segno di Morfeo? A me torna alla memoria il fallimentare blocco bolognese che affossò gli azzurri guidati da Mondino Fabbri contro la Corea ai mondiali del ’66.
© RIPRODUZIONE RISERVATA