Cronaca / Tirano e Alta valle
Lunedì 01 Febbraio 2016
«Non aveva progettato il delitto»
L’investigatore Denti ha studiato a fondo la scena del crimine costato la vita a Veronica Balsamo. «Giusto non riconoscere la premeditazione: Casula ha agito d’impeto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti».
«È giusto che il giudice abbia ritenuto insussistente l’aggravante della premeditazione: non è stato assolutamente un delitto premeditato, direi invece che si è trattato del classico delitto d’impeto».
L’investigatore privato Ezio Denti conosce bene i fatti della sera di quel 23 agosto 2014: poco dopo l’arresto di Emanuele Casula era entrato a far parte del pool difensivo del giovane grosottino.
Assieme ai suoi collaboratori e all’avvocato Francesco Romualdi, aveva passato al setaccio tutta la scena del delitto: il bosco della frazione di Roncale, a Grosotto, dove Veronica Balsamo era stata trovata senza vita, e l’abitazione di Gianmario Lucchini, l’aiuto sagrestano colpito alla testa con un cacciavite e ridotto in fin di vita.
«Secondo l’accusa Emanuele aveva colpito e ucciso Veronica fuori dall’auto e l’avrebbe trascinata nel bosco soltanto in secondo tempo - ricorda il professionista -. In base alla ricostruzione che abbiamo effettuato noi, invece, tutto lascia pensare che la ragazza sia stata uccisa nello stesso punto in cui è stata trovata. Non ci sarebbe insomma neanche stato il tentativo di occultamento del cadavere».
«Anche la ricostruzione delle parti civili è andata in questa direzione, confermando il fatto che la confessione del mio assistito era pienamente credibile anche sui punti in cui contraddice l’accusa» aggiunge l’avvocato Romualdi.
Anche sulla base di queste premesse, Denti non si unisce al coro di chi ritiene insufficiente la pena di vent’anni di reclusione decisa l’altro giorno dal giudice Fabio Giorgi a carico di un imputato accusato di aver ucciso una ragazza per una banale litigata tra giovani e ferito in modo gravissimo tentando di ucciderlo un uomo la cui unica colpa era quella di aver visto troppo.
«Quello che ha fatto è imperdonabile, su questo non ci sono dubbi - il commento del popolare detective -. Se però partiamo dal presupposto che nel nostro ordinamento la funzione della pena è quella di tentare di rieducare il reo, allora temo che vent’anni di carcere per un ragazzo che all’epoca aveva appena diciotto anni possano essere troppi. Penso a casi di delitti altrettanto efferati, anzi, forse ancora più di questo, i cui autori hanno dimostrato, nel tempo, di essere in grado di completare un percorso di recupero e sono stati restituiti alla vita. Il caso di Erica e Omar (i fidanzatini assassini del celebre delitto di Novi Ligure) ne è un esempio».
Se il giudice avesse riconosciuto anche l’aggravante della premeditazione, la pena sarebbe stata più severa: ergastolo, anche con la scelta del rito abbreviato che garantisce lo sconto di un terzo della pena.
Ritenute invece le aggravati (come quella dei futili motivi) pari alle attenuanti (la giovane età e il fatto e l’assenza di precedenti penali), il Tribunale sondriese di primo grado ha deciso per la pena massima possibile a queste condizioni: trent’anni, diminuiti di un terzo per il rito abbreviato.
Casula, nonostante la perizia che dichiarava affetto da parziale vizio di mente, è stato riconosciuto pienamente capace di intendere e di volere. I pm Elvira Antonelli e Giacomo Puricelli hanno insistito molto su questo aspetto nella requisitoria del processo.
Qualsiasi cosa sia successa nel momento in cui nel ragazzo è scoppiata la follia omicida, infatti, resta comunque il fatto che Emanuele Casula non soltanto ha cercato di eliminare un testimone, ma ha avuto anche la lucidità per cercare fino all’ultimo di sottrarsi alle indagini.
«Questo potrebbe spiegarsi con il fatto che l’abuso di sostanze stupefacenti abbassa le inibizioni, ma senza rendere del tutto incoscienti di quello che si sta facendo - conclude Denti - .In quelle condizioni, comunque, può bastare pochissimo per scatenare delle reazioni abnormi».
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