Cronaca / Tirano e Alta valle
Domenica 31 Dicembre 2017
Morì con le sue due gemelle
Il 7 febbraio tutti davanti al gip
La tragica vicenda di Claudia Bordoni torna sotto i riflettori al Tribunale di Milano.
Si terrà il prossimo 7 febbraio l’udienza preliminare a carico di un medico e di due ostetriche della clinica Mangiagalli di Milano accusati di omicidio colposo per la morte di Claudia Bordoni, la 36enne originaria di Grosio deceduta il 28 aprile dell’anno scorso insieme alle due gemelle che portava in grembo. Il pm di Milano Maura Ripamonti, dopo due consulenze tecniche, inizialmente aveva chiesto l’archiviazione del caso, escludendo il nesso causale tra l’omissione «gravemente colposa» degli imputati e la morte della paziente con le due gemelline. I familiari della donna, assistiti dagli avvocati Antonio Bana, Francisca Buccellati e Antonio Sala Della Cuna, hanno però presentato opposizione e il gip Stefania Donadeo ha dato loro ragione, ordinando l’imputazione coatta alla quale ha fatto seguito l’istanza di rinvio a giudizio della Procura milanese.
La manager valtellinese, dal 13 al 20 aprile dell’anno scorso era stata ricoverata al San Raffaele per complicazioni nel corso della gravidanza. Il 26 aprile, poi, si era recata al pronto soccorso della clinica Mangiagalli, il 27 era stata ricoverata nel Dipartimento materno-infantile ed era morta il giorno dopo per un’emorragia interna con il conseguente aborto dei due feti.
Secondo il giudice Donadeo, che ha respinto la richiesta di archiviazione del pm nei confronti dei tre sanitari, «è evidente come non si possa ragionevolmente escludere» che, se gli imputati «avessero posto in essere le condotte doverose omesse, in termini di accertamenti diagnostici e terapeutici suggeriti dalle linee guida» accreditate per la prevenzione dell’arresto cardiaco anche in gravidanza, «la morte della signora Bordoni, e anche quella delle gemelle non si sarebbe verificata» nell’immediato «o al massimo si sarebbe verificata in epoca posteriore o con minore intensità lesiva».
Linee guida dalle quale «risultano infatti una serie di elementi fondamentali che dovevano essere presi in considerazione (...)», cosa che invece non accadde, e che avrebbero fornito indicazioni e parametri «per supportare le funzioni vitali della paziente, a prescindere da una precisa diagnosi di shock» e dall’origine della emorragia, la quale quindi si sarebbe potuta salvare, almeno lei, «con probabilità considerevoli, e quindi molto più che solo buone, come invece affermerebbe il pm».
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