Con l’Election day (accorpamento del voto alle Europee con quello delle Amministrative e Regionali l’8-9 giugno) si apre formalmente la maratona elettorale in un Paese che in realtà è già in perenne campagna.
Con questa decisione il governo intende contenere i margini di astensione e puntare sull’effetto trascinamento a proprio favore delle elezioni per l’Europarlamento su quelle territoriali. Giorgia Meloni sembra intenzionata a correre da capolista in tutte le circoscrizioni, scelta che “chiama” un’analoga risposta da parte di Elly Schlein: la segretaria dem non ha ancora deciso, nel partito ci sono resistenze non solo dei padri nobili. Pur sapendo che nessuna delle due opterà per restare nell’assemblea di Strasburgo, derubricando la contesa europea a disputa interna.
Motivi tattici (effetto boomerang ad alto rischio) sconsigliano tale eventualità per Schlein e anche una questione di merito: l’Europa non è un taxi per salire e scendere a piacimento. Regola stringente per un partito europeista. La premier non ha di queste remore, perché ritiene che mettere in campo la propria immagine abbia un effetto mobilitante. Cambiando il terreno di gioco, si appella ad un voto su di sé, non sull’Europa. Del resto l’approccio comunitario del governo è problematico, non lineare: distinto dall’oltranzismo di Salvini e collocato in quella posizione attendista che potremmo definire di “appoggio esterno” e condizionato alla Commissione Ursula.
In sostanza – come ha rilevato l’economista Francesco Giavazzi, braccio destro di Draghi a palazzo Chigi – l’esecutivo s’è accontentato di non fare danni piuttosto che di progettare in grande, di provare a declinare una propria idea di Europa. Tuttavia Meloni è nelle condizioni di dare lei le carte: agli avversari non concede nulla, agli alleati applica il metro gelido dei meccanici rapporti di forza, redistribuendo i pesi nella maggioranza. La Sardegna, come sa Salvini, insegna. L’obiettivo è consolidare il primato delle Politiche del 2022 sostanzialmente confermato dagli attuali sondaggi e, in qualche modo, la quadratura del cerchio è stata ottenuta con il varo del concordato preventivo: dopo il taglio del cuneo fiscale del lavoro dipendente fino a 35 mila euro, ecco la copertura della fascia degli autonomi, serbatoio del consenso della coalizione.
La novità potrebbe essere il confronto esclusivo fra le due donne della politica italiana che, oscurando i rispettivi soci (in particolare Salvini e Conte), le vedrà impegnate a far dimenticare i propri limiti: Meloni gli scarsi risultati e i passi falsi del governo, Schlein la debolezza del Pd. Ma la prima parte psicologicamente da un vantaggio competitivo, perché il fattore leadership, inteso come piglio di comando, agisce in modo differente a destra e a sinistra. Il brand Meloni supera il marchio Fdi e viaggia un po’ per conto suo, mentre nel centrosinistra conta più la forza del partito che non del leader (ruolo notoriamente non invidiabile). La premier è indiscussa nel suo partito, Schlein viceversa è discussa. Non solo: la prima è in grado di fare shopping elettorale dalle parti della Lega, la seconda non attrae i post grillini, restando nei confini identitari dem.
Giorgia si è scelta come avversaria la segretaria del Pd in quanto la valuta più fragile rispetto a un Conte più difficile da prendere, uomo privo di vincoli e per tutte le stagioni, non dimentica peraltro che un pezzo del successo della destra proviene dall’elettorato mobile grillino: non ha interesse a sollecitarlo contro la destra. Nella ricostruzione fatta dal “Post»” si legge che «un po’ tutti nel Pd sono scontenti perché non comprendono le intenzioni di Schlein, che è una leader che tende a condividere le sue riflessioni con i pochissimi collaboratori stretti di cui si fida, perlopiù estranei alle strutture e alle gerarchie del partito». Non è riuscita a smantellare le correnti interne, ha inseguito un movimentismo radicaleggiante (le recenti e discusse uscite su Ucraina, Israele e fine vita) a scapito dell’area riformista, soffre la spregiudicatezza del non ancora alleato Conte, il quale ha mano libera senza bisogno di sforzarsi di essere coerente.
«Il segretario – ha detto un preoccupato Pierluigi Castagnetti al “Foglio” – non è il proprietario, è un primus inter pares. Il Pd è un bene comune, appartiene agli iscritti e agli elettori. Questa segreteria spesso lo dimentica». Il Pd, almeno in questa fase, non pare avere una riserva di forza espansiva.
L’impressione è che nel campo Pd-Cinquestelle i numeri cambino ben poco. I sondaggisti, pur in presenza della doppia candidatura e di un eventuale super show televisivo pre elettorale fra le due, sono scettici su un cambio di fase rispetto alla cornice esistente: all’orizzonte non si scorgono grandi svolte. Si parla di piccoli aggiustamenti, decimali, zero virgola, nessuna discontinuità. Anzi, per il vertice dem l’insidia è il ricordo di quel 22% ottenuto dal Pd di Zingaretti alle Europee del 2019.
Resta comunque il significato politico, la carica simbolica di una sfida nel segno della leadership dura e pura: la spinta di Giorgia ad uno scontro diretto per rendere visibili le contraddizioni di Elly, benché un discorso argomentato sull’Europa metterebbe in difficoltà la premier. Per la leader dem, comunque decida, il problema non banale c’è.
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