L’opposizione e il voto Una corsa a ostacoli

Doppiato il capo del 25 aprile senza che i venti tempestosi della campagna elettorale scuotessero più di tanto lo spirito unitario della ricorrenza, i partiti tornano a misurarsi con la sfida elettorale dell’8-9 giugno. Non mancheranno certo in quest’ultimo mese che ci separa dall’apertura dei seggi occasioni di scontro (potrebbe esserlo l’imminente ricorrenza del Primo maggio, tradizionale festa cara alla sinistra). Alla fine, però, su tutto si può star certi che prevarrà il loro interesse elettorale. Il voto europeo è regolato dal sistema proporzionale. Di conseguenza ogni forza politica è spinta a ottenere dalle urne, prima e sopra tutto, il miglior risultato possibile. La strategia da adottare per contendersi la guida del paese può aspettare. Eppure è questa la sfida vera che attende le forze politiche. Una sfida vitale per tutte, ma in primo luogo per l’opposizione.

Questa non solo ha da recuperare lo svantaggio elettorale che la distanzia dal polo avversario. Si trova anche in mezzo al guado. Il Pd, che da sempre aspira a svolgere il ruolo di guida della minoranza, ha abbandonato la sua originaria “vocazione maggioritaria” ma non ha ancora costruito un sistema di alleanze capace di reggere la sua ambizione a strappare la guida del Paese alla destra.

Per quanto l’opposizione vanti sulla carta una dote elettorale persino più alta di quella dell’attuale maggioranza, alla prova dei fatti ha mostrato di non riuscire a monetizzare in voti sonanti il suo patrimonio. Con domenica scorsa sono cinque le sconfitte regionali rimediate dal “campo largo” in soli sedici mesi: unica eccezione la Sardegna. Nove anni fa, il centrosinistra guidava 15 regioni, oggi solo 5. C’è di che riflettere.

È evidente che per tornare ad essere competitiva l’opposizione deve superare lo stallo in cui si trova. Non è ancora riuscita infatti a costruire, se non un’alleanza, almeno una leale collaborazione tra i due partner più forti. il Pd e il M5S. Senza uno dei due mancherebbero semplicemente i numeri. Tutto il resto, a partire dalla compatibilità – assai incerta - tra Azione di Calenda e il partito di Conte, viene dopo.

Il primo nodo da sciogliere restano i burrascosi rapporti esistenti tra i due maggiori partiti. Un nodo tanto aggrovigliato che ultimamente è sorto il dubbio sia inestricabile. Sono ben tre i legami che lo stringono.

Primo: il tema della leadership. Né il M5S né il Pd sono disposti a cedere la guida del futuro governo all’avversario. La soluzione potrebbe essere il ricorso al solito “Papa straniero”, come lo fu Prodi nel 1996 e nel 2006, l’inventore dell’Ulivo. Secondo: il problema del programma comune. Sinora, l’unico tema su cui si è realizzata una convergenza è stato il salario minimo; una battaglia peraltro lasciata presto cadere.

Per il resto, si è registrata una divergenza difficilmente colmabile su presso che tutto; a partire da alcuni temi cruciali, come la guerra in Ucraina. il sostegno alla Nato, il rispetto dei vincoli di bilancio, la conseguente ridefinizione del welfare nazionale (scuola, sanità, pensioni).
Sono tutte scelte dolorose, ma inevitabili, viste le scarse risorse disponibili, dopo l’abbuffata del super-bonus 110%.

Terzo: la dubbia compatibilità dei due elettorati. Mentre il popolo dem sembra disposto a sostenere i candidati proposti dall’avvocato di Volturara Appula, non pare lo sia quello grillino. I casi probanti sono numerosi. Solo per citarne gli ultimi: Bari città, Regione Basilicata e - ormai è cosa fatta – la Regione Piemonte, prossima al voto. In tutti questi casi il Ms5 s’è letteralmente squagliato. Il centrosinistra, per vincere, ha dovuto prescindere dal partito di Conte. Si vedano le vittorie riscosse nella quasi totalità dei capoluoghi di provincia lombardi.

Si voglia o meno, “hic Rhodus, hic salta”. Questi sono gli ostacoli, questa è la sfida che l’opposizione deve superare.

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