l’importanza
nazionale
del voto
in abruzzo

È decisamente nervosa questa vigilia elettorale. Se non ci fosse stato il voto in Sardegna, il test abruzzese sarebbe stato significativo ma comunque non determinante: del resto la regione è piccola e poco popolosa. Ma la sconfitta della destra in Sardegna ne ha fatto una sorta di controprova: se l’Abruzzo passasse alla sinistra, la narrazione sul governo, la maggioranza, l’invincibilità meloniana, fatalmente cambierebbe. Anche perché da anni ormai l’Abruzzo è una roccaforte della destra: non a caso Giorgia Meloni è stata eletta all’Aquila dove un suo fedelissimo ha conquistato la poltrona di sindaco già nel 2017. E poi lo stesso Marco Marsilio, il governatore uscente e ricandidato, quando regalò a FdI il primo governo regionale, vinse con una larghissima maggioranza, quasi il 50 per cento, sullo sfidante Giovanni Legnini (ex vicepresidente del CSM e soprattutto ex stimato commissario alla ricostruzione post terremoto) che riuscì a racimolare poco più del 30 per cento. Al suo posto di commissario è andato un altro meloniano, l’ex sindaco di Ascoli Piceno Guido Castelli.

Il reticolo del potere locale del centrodestra in questi anni si è infittito e rafforzato, e ciò ha il suo peso nella regione che fu dominata per decenni da Remo Gaspari, il ministro dc che fondava il suo potere sull’assunzione di migliaia di postini abruzzesi.

Insomma l’Abruzzo è quello che i giornali definiscono politicamente un feudo: espugnarlo per la sinistra sarebbe un sogno, ma anche una svolta. Con essa si potrebbe cominciare a raccontare di un declino del melonismo assai più rapido di quanto prevedesse anche il più ostile degli analisti.

E’ per tutte queste ragioni che il voto abruzzese ha finito per assumere un peso nazionale sproporzionato rispetto alle sue dimensioni. Il verdetto ci dirà se è stato oppure non, un errore, da parte di Giorgia Meloni, appaiare così tanto se stessa e i ministri del suo governo con la battaglia sulle rive del Pescara o tra i monti aquilani: a frotte i componenti del governo solo calati tra l’Aquila, Pescara, Teramo, Chieti a presiedere riunioni operative su nuovi ospedali, dibattiti sulla linea ferroviaria Roma-Pescara, convegni sul potenziamento del centro spaziale del Fucino, facendo da sfondo ai comizi dei leader e soprattutto di lei, di Giorgia, che confessa in televisione che ormai si è abituata ad andarci anche a letto, con l’elmetto: “succederà di tutto”, continua a ripetere ogni volta che incontra il suo popolo.

E il riferimento è fatalmente alle elezioni europee di giugno, quelle in cui quasi certamente si candiderà ovunque come capolista. Perché il punto è proprio questo: se cambia la narrazione, essa può influire negativamente sull’esito di giugno che è un test fondamentale sia interno – e il primo vero esame elettorale del governo dall’autunno 2022 – sia europeo, e quindi non si possono correre rischi.

Bisogna vincere in Abruzzo per rivincere alle europee e mettere al sicuro al governo.

Certo, il risultato di FdI non è tutto. C’è molta ansia anche per quello del partito di Salvini che in queste prove vede anche un rischio per la sua leadership: la Lega deve “tenere” e non scendere sotto Forza Italia, un partito che dalla morte di Berlusconi è stato definito in procinto di chiusura e invece grazie ad Antonio Tajani, che si propone come un classico leader moderato e rassicurante, è ancora in campo per giocare la sua partita.

Salvini non perde occasione per occupare la scena, sia quando rivendica come proprio merito il rifinanziamento della Roma-Rescara, sia quando applaude le vittorie di Donald Trump proprio mentre Giorgia si fa fotografare a Washington mentre Joe Biden l’abbraccia con un gesto quasi paterno.

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