Dall’Unione europea, per quanto attaccata da più parti, nessuno intende andarsene. Anzi, si vuole entrare. L’ingresso di Ucraina, Moldavia e Balcani sarà fra anni, ma intanto i primi passi sono stati compiuti. La resistenza degli ucraini nel 2014 è iniziata dalla parte dell’Europa, così come le recenti proteste anti russe in Georgia. Il fatto nuovo è che nessun partito all’interno dell’Ue vuole seguire gli inglesi. Il capitombolo Brexit insegna. L’Unione sarà pure un’incompiuta e irrilevante sul piano geopolitico, una talentuosa in fase di stanca o una paziente bisognosa di cure, ma conserva una forza d’attrazione: quella di rappresentare uno spazio condiviso di valori e principi, ancor prima di essere una zona di libero scambio.
Che l’area anti sistema non intenda più superare certe linee rosse, va a credito dell’europeismo e segna la rivincita della realtà. Europeismo insoddisfatto anche dei propri successi: la gestione della pandemia e dell’economia post Covid, la fase migliore di questa legislatura. Eppure il malessere, a cominciare dai meglio intenzionati, c’è e mescola traguardi raggiunti, ambizioni frustrate, aspettative disattese. Crisi da crescita e di una crescita insoddisfacente. E’ l’immagine della bicicletta: se si ferma cade. Abbiamo corso, ma gli altri sono stati più veloci. In poco tempo anche i più importanti Stati europei sono scesi di scala, il loro peso specifico è diminuito in un mondo fattosi più grande.
Abbiamo una taglia troppo piccola per poter competere alla pari sulle partite strategiche globali, mentre aumenta la minaccia degli autocrati che contrastano lo Stato di diritto e il nostro modello di democrazia. La storia accelera e c’è chi accelera meglio di noi. Le sfide si moltiplicano per poi accumularsi. Agli choc esterni, quasi sempre collettivi, rispondiamo spesso a livello individuale. Si vorrebbe inseguire maggiori livelli d’integrazione in ogni settore, tuttavia cresce, con il diritto di veto, il peso dei singoli Paesi: basta l’Orban di turno e il meccanismo si blocca. La dimensione politica e democratica non s’è rafforzata.
Lo scontento mostra anche un altro volto. Seguendo le parole dell’eurocommissario all’Economia, Gentiloni (il libro «Nelle vene di Bruxelles» di Paolo Valentino), si è passati dalla demonizzazione all’invocazione di più Europa: «Prima era il “nemico” e adesso è “l’assente”». I “cattivissimi” di ieri sono i folgorati di oggi, obbligati dal realismo e dal calcolo elettorale. Ripulirsi per rendersi presentabili e così Marine Le Pen (con Salvini) ha divorziato dall’ultradestra tedesca, la più pericolosa. Dall’opposizione al governo come la destra di Giorgia Meloni che miscela atlantismo, europeismo critico, un certo sovranismo, la vicinanza a Vox e un qualche aggancio con la Le Pen riveduta e corretta.
La marcia dentro le istituzioni di una destra radicale ed euroscettica dal posto fisso nella geografia elettorale (passata all’Europarlamento dall’8,7% di 20 anni fa al 18% del 2019) ha cambiato il terreno di gioco. All’incirca fino alla crisi finanziaria del 2007-2008 il confronto politico stava dentro l’europeismo con una sostanziale convergenza sui fondamentali dei partiti (popolari, socialisti, liberali) che hanno votato la democristiana tedesca Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione, l’istituzione che più si avvicina a una forma di governo.
Con la “ribellione populista” culminata nel 2016 nella Brexit e in Trump, lo scontro diretto s’è trasferito fra l’europeismo tradizionale e l’alternativa della destra radicale. Quasi uno schema America. La nuova destra si unisce “contro”, soffre di tante divisioni ed è priva di un progetto comune. Tuttavia ha già condizionato l’esecutivo Ue, dimostrato dalla stretta sui migranti e, al di là delle questioni di merito, dal freno alla transizione ambientale.
Qualsiasi variazione sul tema, dal restyling di Le Pen al “formato Meloni” (il ponte fra popolari e destre), può produrre smottamenti nell’altra metà campo. E’ il caso della vacillante candidatura di Ursula, la cui apertura ai conservatori della premier italiana le sta costando il sostegno non solo dei socialisti ma di un pezzo del suo partito e di Macron. Il pallino è nelle mani dei popolari, la principale famiglia europea, l’ex salotto buono, e in particolare dei tedeschi che contano più degli altri. In questa partita la prima mano tocca a loro: decidere l’azzardo o meno e fin dove spingersi, fra il “cordone sanitario” a destra o l’apertura selettiva verso gli euroconservatori di Meloni. Molto difficile, comunque, pensare che la futura Commissione non sia l’esito di un accordo fra i gruppi politici che governano in Germania (socialdemocratici e liberali), in Francia (liberali) e in Spagna (socialisti).
Il destino di Ursula risente dell’avventura di transizioni scivolose: la posta in gioco del voto è il necessario rilancio dell’integrazione comunitaria, un passaggio che avviene nel momento più critico.
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