Una città è fatta di luoghi, alcuni immutabili nel tempo di una vita, come a Lecco le montagne o il lago, altri soggetti a una continua trasformazione, non sempre in senso evolutivo, ma destinata comunque a modificare il nostro immaginario, anche in modo traumatico. A guardare Lecco quando “eravamo in bianco e nero”, negli anni dal 1950 al 1971, come ha proposto di recente il nostro giornale, stentiamo a riconoscerla, incerti tra la nostalgia per un mondo vagheggiato ma irripetibile e la presa di distanza da una stagione conclusa, nella necessità di proiettarci verso il futuro. Ma se al fluire spesso straniante del contesto che ci circonda riusciamo almeno a rassegnarci, a una città che cambia in continua sottrazione di volti noti che scompaiono, di presenze fondamentali che vengono meno, non riusciamo invece ad abituarci, quasi non volessimo prendere atto che persino le vite dei concittadini che più contano hanno una inevitabile scadenza.
A volte ce ne dimentichiamo, ma la dura realtà non ammette sconti: i tre lunedì di questo inizio dicembre sono coincisi con altrettanti funerali di lecchesi illustri. Tutto è cominciato con la scomparsa a 80 anni di Tino Stefanoni, protagonista locale ben noto a livello nazionale e internazionale. Come non provare un senso di sgomento per la perdita di un artista e di uomo grande, che tanto ha dato alla sua città?
E se poi, in un crescendo insulso quanto crudele, a una settimana dalla morte a 93 anni di Franco Mori, uno dei fondatori dell’ELMA (l’Ente lecchese manifestazioni), con una coincidenza inaspettata quanto sorprendente, ci lascia a 97 anni anche Renato Corbetta, che di quella straordinaria esperienza è stato per un cinquantennio il Presidente, il senso di vuoto è così forte che nessun necrologio, anche il più dettagliato e partecipe, riesce a colmarlo. Anzi ci coglie un senso di disagio di fronte al pur doveroso sforzo di sintetizzare una vita individuale intrecciandola con quella collettiva, attraverso un necrologio appunto, perché il rischio è di mettere la parola fine a un pezzo della nostra storia invece che darle continuità, trasformando tre persone vive che hanno cambiato Lecco con l’intelligenza dei loro sforzi, in tre personaggi da aggiungere a una ideale galleria cittadina. Un album di famiglia da sfogliare con orgoglio, in cui però le singole identità con il tempo finiscono per confondersi e i ricordi, al pari delle immagini, tendono a sbiadire.
E noi non vogliamo che Tino, Franco, Renato, ci sia concesso di accomunarli e per una volta di chiamarli affettuosamente solo per nome, diventino ritratti da polverosa quadreria. Quello che li ha motivati e indirizzati per l’intera vita, pur nella diversità delle esperienze e dei contributi offerti, è stato il grande amore per Lecco, per questa città non sempre abbastanza generosa con chi la ama di più, ma in ogni caso capace di distinguere, almeno al momento del forzato distacco, la profondità e la persistenza di un sentimento.
Se prendiamo atto che la storia di Lecco deve continuare e scorrere in avanti, l’unica via percorribile è quella segnata da queste tre preziose figure, e tante altre ne potremmo aggiungere guardando il nostro passato, quello più lontano in bianco e nero, ma anche quello più recente a colori. Una città cresce se chi la abita la pone al centro dei suoi pensieri e della sua azione. E con lei vivono, non come monumenti, ma come presenze costanti, attive, coloro che hanno saputo trasmetterci questa amorosa lezione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA