L’anfora piena d’oro
e tre film immaginari

Quella foto vale un film. L’immagine delle monete d’oro che brillano tra la palta, la polvere, il grigio di un’anfora spaccata, più che per la prima pagina di un quotidiano sembra perfetta per la locandina di un cinema. C’è lì dentro tutta la forza delle storie vincenti. C’è la ricchezza di un immaginario condiviso: quelle monete sono i sesterzi di Asterix e il paiolo ma anche gli zecchini di Pinocchio.

Ma in quella foto, soprattutto, c’è il fascino del mistero. Perché trecento monete in un’anfora? Perché nascoste lì sotto? Perché dimenticate lì per 1.500 anni?

La fantasia è troppo impaziente per attendere il responso degli esperti. Ecco allora tre brevissimi soggetti, ognuno corrispondente a un’epoca e a un genere diverso. Tre stracci di film da immaginare proiettati su uno schermo fantasma: quello del carissimo, scomodo, indimenticabile Cinema Centrale.

“Amphora”. Genere peplum. Novum Comum, V secolo D.C.

Cuore della vicenda è una comunità di residenti. Evitiamo la mestizia di una riunione di condominio. Pensiamo a una situazione più adrenalinica: sono le famiglie fondatrici con i barbari ormai alle porte. Oppure i più ricchi con gli esattori delle tasse già avvistati in città.

Occorre fare in fretta. E qui prorompe il fiero spirito comasco: “Non ut spoliaremur divites facti sumus...!!!” (sottotitolo: “Ghem fae i danée minga per farceli ciular via!”). La determinazione è granitica ma c’è solo un dettaglio: di chi fidarsi? Già allora, da queste parti, la questione doveva risultare antica: d’accordo, uniamo le forze... sì, ma poi??? In ogni caso non c’è tempo per discutere. Il più intraprendente ha dunque un’idea: sarà il povero Titus, incapace di formulare un solo pensiero (figurarsi un progetto di furto!) a occuparsi della faccenda. A pericolo scampato, sarebbe stato lui a riaccompagnarli nel posto segreto e lì si sarebbero ridivisi i beni.

Titus obbedisce, come sempre. E che fa? Il sacco con tutte le monete d’oro lo trascina nel buio, in cantina. Prova a nasconderlo su uno scaffale, in un angolo... ma un brillio scappa sempre fuori. Intuisce allora che serve ben altro: un sacrificio. Lui, astemio (o piuttosto ignaro delle delizie enologiche), si scola d’un fiato tre litri di Infernum. E, per quanto il foro dell’anfora appena svuotata cominci ad apparirgli doppio se non quadruplo, una per una vi infila le trecente monete d’oro! Dlìn! Hìc! Dlin! Hìc! Terminata la procedura, avverte però un nuovo richiamo: niente male l’Infernum ma come sarà il Coactum Tellinae Vallis (sottotitolo: lo Sforzato di Valtellina)? L’esplorazione non si ferma lì. Il risultato è che da quella cantina, dopo due ore, Titus se ne esce dimentico di tutto: dei patrizi, delle monete, degli Unni e gli Ostrogoti. Ora ha finalmente capito qual è la sua strada (peccato però che continui a scappargli a destra e a sinistra...).

Fatto sta che Titus in Novum Comun non lo si rivide più. E i nostri concittadini di allora? Un po’ come quelli attuali: i soldi? attentissimi a non farseli ciular via! Peccato che nessuno sappia più dove siano finiti. Lo scopriranno i pronipoti.

“L’oro del Reno”. Melodramma. Como, 3 ottobre 1881.

Al Teatro Cressoni è di scena L’oro del Reno di Richard Wagner. In uno stanzino attiguo al palco c’è un uomo che sta finendo i propri giorni. La barba lunga, è vestito malamente: nel suo teatro ha investito ogni bene ma, come lui stesso ebbe modo di dire: “molti applausi, pochi incassi”. Il respiro è sempre più lento.

Intanto sul palco le tre ondine stanno svelando ad Alberich il grande segreto: la persona che riuscirà a forgiare un anello con l’oro nascosto nel fiume avrà in dono il potere del mondo intero. Il prezzo? Dovrà rinunciare per sempre all’amore.

Flashback: Via Diaz, l’uomo dodici anni prima. Ci appare elegante, con un cappello bianco e dei grandi rotoli sotto il braccio. L’ha chiamato di corsa un operaio del cantiere. Scavando, scavando, la sua pala ha urtato qualcosa! Davanti ai suoi piedi un’anfora con un contenuto che abbaglia. Un lungo silenzio. L’uomo lo interrompe con voce bassa ma risoluta: “Luigino, facciamo che non abbiamo visto niente.”, “Ma...”, “Siamo già in ritardo coi lavori. Il mio teatro non può aspettare!”. Sull’anfora una manciata di terra.

Ritorno al 1881. “Annibale!... Annibale!”. La donna, appena entrata nello stanzino, si piega sull’uomo, ormai esanime. Sul palco il canto delle ondine: “Nella luce dell’Oro come bello riluci!”. Sul volto dell’uomo un ultimo sorriso.

Como, 2018, l’insegna con la scritta “Teatro Cressoni” cade a terra. Un fotografo la immortala: è ancora intatta.

“Sotto sotto”. Fantascienza. 2020.

Scenario distopico. Il ritrovamento delle trecento monete d’oro sotto il Cinema Centrale scatenò nei comaschi un’inarrestabile furia demolitrice. Forti dell’assioma: basta sbattersi in superficie, le risorse stanno qui sotto, i residenti nella convalle procedettero al progressivo abbattimento di ogni edificio pubblico. Prima fra tutti, ovviamente, i cinema o quello che rimaneva della categoria. Politeama, Astra, Gloria... Al loro posto si aprirono oscene voragini dove qualcuno iniziò a buttare qualche centesimo tanto per provare a giustificare il misfatto. Poi l’azione si concentrò sulla Biblioteca, il Palazzo Terragni, il Municipio... vuoi che i Romani non si siano affidati anche a quei posti lì? Imbarazzante ammetterlo ma, legittimate da un’ampia letteratura in materia, le scavatrici non risparmiarono neppure i luoghi sacri... Monete d’oro? neanche l’ombra. Piazza Duomo, in compenso, ora non incontrava più alcun limite in estensione e in profondità! Una convalle nella convalle! Ci fu chi se ne mostrò orgoglioso, chi organizzò i fuochi d’artificio, chi vi riconobbe un potere attrattivo in funzione turistica.

Scena finale. Due neo-barbari arrivati da chissà quale altro pianeta vagano per quella che fu una città. Uno alto e grosso, l’altro basso e minuto, entrambi con due bei baffoni, sono alla disperata ricerca di un abitante... Ma da tempo nessuno esce più dalla propria dimora nel timore di ritrovarvi subito dopo una buca. Eppure la guida che i due tengono in mano parla di una città piena di vita... Novum Comum! A raggiungerli è una vocina senza volto, dal basso (e te pareva...): “E’ che con noi ci vuole pazienza. Siamo pieni di risorse... sotto sotto!”.

I due ci voltano le spalle. Primo piano di quello più grosso. Dopo un sospiro, picchiettando l’indice alla tempia: “Sono Pazzi Questi Comaschi!”.

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