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Domenica 03 Febbraio 2013
La storia di Orazio Rancati
Tra il Brasile e Nereo Rocco
Classe 1940, mezzala di ruolo, è l'unico calciatore valtellinese che ha avuto l'onore di vestire la maglia della Nazionale olimpica. Sfiorando anche una medaglia. È stato solo uno sfortunato sorteggio, infatti, ad impedire agli azzurri l'ingresso alle finali di Roma
«Pur essendo stato designato titolare, grazie al positivo finale di campionato che avevo avuto con l'Inter - racconta oggi -, alle Olimpiadi romane entrai in squadra solo alla terza partita, perché ero in ritardo di preparazione. Un'operazione d'appendicite, a maggio, aveva rischiato di farmi perdere questa grande opportunità. Quella azzurra era una squadra imbottita di giovani, ma da cui molti hanno spiccato il volo verso grandi carriere. Il confronto con il Brasile, nei quarti, iniziò davvero male. Nel primo tempo, i sudamericani c'impartirono una lezione di calcio tecnico e fantasioso. Ma nella ripresa, con marcature difensive non sempre ortodosse, siamo riusciti a rimontare il gol di svantaggio e a chiudere con una vittoria per 3 a 1. I brasiliani accettarono il verdetto con molta cavalleria e il loro allenatore, il famoso Vincente Feola - conservo ancora oggi il giornale di quei giorni - indicò nelle «3R» d'attacco (Rivera, Rancati, Rossano) i più bravi giocatori italiani in quella giornata».
Capita molte volte a un attaccante di fallire un gol. Ma per Orazio Rancati un'occasione fallita divenne un incubo. «In semifinale, sul campo di Napoli, trovammo la Jugoslavia, che schierava una squadra di professionisti navigati. La partita sembrava destinata a chiudersi sullo 0-0, al termine dei supplementari, quando, su un tiro respinto dal portiere slavo, a terra e senza più la possibilità d'intervenire, mi trovai sul piede, a pochi metri dalla porta, una palla che sarebbe bastato spingere in rete. Invece che di piatto, purtroppo colpii di collo piede e il tiro finì fuori. Il sorteggio, effettuato nel cappello di Rocco, ci condannò. Io, negli spogliatoi, ero letteralmente distrutto e ho chiesto ai tecnici (Rocco e Viani) di non giocare la finale per il terzo posto e di rimandarmi a casa. Era il 5 settembre del 1960, una data che non ho più dimenticato. Mi ci volle del tempo per rifarmi della grande delusione, anzi, per essere sincero, qualche volta mi rammarico anche oggi. A margine, ricordo un simpatico episodio: Rocco, che ho poi ritrovato come mio allenatore nella Triestina, dichiarò in televisione in quei giorni: «Se quel mona di Rancati non sbagliava quel gol, avremmo vinto la medaglia d'oro. Mi telefonò subito dopo, per assicurarsi che la battuta fosse stata interpretata come tale». Ma le soddisfazioni in carriera non mancarono certo a Rancati: quando se ne andò dal Parma, gli fu addirittura dedicato un libro.
Rancati, quali giocatori dell'Italia conobbe e quali l'impressionarono di più?
«Rividi Trapattoni, con il quale duellavo nei confronti giovanili tra Inter e Milan, che divenne mio grande amico. Gianni Rivera aveva solo 17 anni, ma lasciava già intuire la sua classe cristallina. Mi impressionò più di tutti, comunque, il compianto Giacomo Bulgarelli, che, a 20 anni, era ormai un regista già rifinito».
Vivere un'Olimpiade è esperienza di pochi. Quali sono i suoi ricordi?
«È vero, incontri tanti di quei campioni, che non sai da che parte voltarti. Ho visto l'allora longilineo Cassius Clay, il nostro Nino Benvenuti. E poi, indimenticabile, dal vivo, la volata di Livio Berruti, che ha battuto i poderosi duecentisti americani, allora giudicati imbattibili».
La carriera di Rancati, che allora vestiva la maglia dell'Inter, sarà decisa, in pratica, da una questione di spogliatoio. Ha la "sfortuna" di essere amico del cannoniere argentino Antonio Valentin Angelillo, che non è nelle grazie dell'allenatore Helenio Herrera. Il morbegnese sarà quindi ceduto al Genoa, poi girerà l'Italia, tra B e C, prima di tornare in Valtellina e rilanciare il Sondrio dalla Promozione al campionato interregionale, da cui mancava da molti anni...
«Sì, grande emozione è stata l'Olimpiade, anche a tanti anni di distanza - riprende Rancati -. Ma anche il centenario dell'Inter non è stato da meno. Non mi vergogno a dire che mi sono anche commosso. Noi, i cinque attaccanti di quei lontani giorni in nerazzurro, ci siamo ritrovati e ho rivisto Angelillo, che mi è sembrato in gran forma».
Se fosse rimasto all'Inter, forse la sua carriera sarebbe stata ancora migliore. È d'accordo?
«È possibile, ma non ho rimpianti. Ho giocato al calcio e serbo una serie di bei ricordi, alcuni indimenticabili. Ma lo sport, anche se lo pratichi a fondo, è solo una parte della tua esistenza, che poi devi riempire con altre cose. Io ho avuto la fortuna di godere di una splendida vita in famiglia. E il calcio, oggi, lo insegno solo al mio nipotino».
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