Bellagio
«La carne dell’Albora è dura, di difficile cottura e tanto insipida che giustamente questo è ritenuto il meno pregevole di tutti i pesci. Comunque lo si cucini non si riesce a renderlo gustoso e soltanto se abbrustolito diventa un po’ più gradito al palato. Si consuma esclusivamente quando c’è scarsità di altri pesci». Scriveva così Hippolyto Salviano nel 1558 nelle “Aquatilium Animaliium Historiae” trattando de “I pesci del Lario con il modo di cucinarli”.
Passi di storia giunti a noi grazie allo studio e traduzione di Graziella Bertani e Gianfranco Miglio e che si possono trovare nell’opera antologica “Larius” edita dalla Società Storica Comense. In un epoca di orge gastronomiche virtuali, imbandite da innumerevoli canali televisivi, cucinate da maghi con in testa un cilindro bianco anziché stellato, (le stelle poi le fanno pagare profumatamente), ci sarebbe lavoro a iosa per sociologi e antropologi.
Personalmente sono d’accordo col Salviano, ma non è di questo che voglio parlare. Fino a trent’anni fa le alborelle, presenti nel lago in centinaia di tonnellate venivano usate soprattutto per produrre farina di pesce da destinare a mangime per uccelli (segno premonitore del loro infausto destino !).
Basta chiedere ai pescatori con reti a quanto le vendevano al chilo. Io ho memoria di 1.000/2.000 delle vecchie lire. Poi va detto che l’alborella, per usare un termine di economia industriale, non è un prodotto finito ma un semilavorato. E’ un semilavorato (cibo) per trote, lucci, lucci perca, persici, cavedani, tutti pesci che infatti (tranne il persico che si ciba anche d’altro) sono in nettissima diminuzione sia nelle quantità che nelle taglie. È un semilavorato anche per noi pescatori perché grazie a questa specie che migliaia e migliaia di ragazzini, come lo è stato il sottoscritto, hanno imparato a pescare.
Quanto alle cause di questa importante e probabilmente irreversibile diminuzione ritengo, e con me sono d’accordo migliaia di pescatori comaschi, che ci sia una sistematica e pervicace volontà di nascondere o meglio di rimuovere il principale problema che vi sta dietro. Circa venticinque anni fa è arrivato sul lago un uccello sino ad allora sconosciuto. Si chiama cormorano (nome derivante da un francesismo che significa corvo marino) Già la provenienza dovrebbe far riflettere: non è uccello nostrano, non è uccello destinato alle acque dolci. Creato dalla natura in 200 milioni d’anni è il pescatore perfetto. Micidiale, purtroppo solo ittiofago. Se gli buttate un pezzo di pane vi può solo guardare con disprezzo. Altri particolari: per campare deve mangiare 400 grammi di pesce al giorno, non è solitario ma i suoi clan possono contare centinaia e centinaia di esemplari. A parte quelli che ormai sono diventati stanziali solitamente si ferma in vacanza da noi 150 giorni l’anno.ottusi.
Anche i pescatori da anni si sono come rassegnati e così fioriscono le motivazioni più balzane e contraddittorie sulla quasi scomparsa delle alborelle. Io, come la volpe di Esopo, mi consolo dell’opinione di Salviano oppure vecchio e incallito appassionato dei miei pinnuti d’argento sogno che se ne stanno nascosti in angoli e profondità inesplorate del nostro immenso lago. Chi può dire infatti di conoscerlo tutto. Sotto i 40 metri il cormorano non può andare e molti pesci come gli agoni, i coregoni, i persici, i pighi, che d’inverno se ne stanno in acque profonde se ne fanno un baffo dei neri pennuti.
Chissà, forse lo avranno detto anche alle albore.
Luigi Guglielmetti
© RIPRODUZIONE RISERVATA