C’è un modo sicuro per far continuare un litigio o un conflitto: accanirsi a voler accertare le colpe dei litiganti. Si apre una spirale che si avvita su se stessa senza fine.
Molto meglio provvedere a separare subito i litiganti e cercare poi di trovare il modo di appianare le ragioni del conflitto. Si tocca qui con mano, oggi, la drammaticità della nuova fase dell’interminabile, forse incomponibile guerra israelo-palestinese.
Purtroppo per noi non ci sono, o almeno non ci sono ancora, le condizioni per uscire dall’inferno dei bombardamenti e dal macello che sta insanguinando la terra di Palestina.
Non ci sono infatti grandi potenze capaci o comunque disponibili a imporre un deponete le armi. Non c’è poi da parte dei contendenti una disponibilità a chiudere le ostilità.
Non è più il tempo in cui l’ordine mondiale era assicurato da Usa e Urss, due superpotenze tra loro nemiche giurate, ma trattenute dallo scatenare la terza guerra mondiale con l’incubo nucleare.
Oggi vige un disordine mondiale che nessuno (nemmeno gli Usa) è in grado di comporre e che qualcuno, addirittura (Cina e Russia), alimenta. Più disordine c’è, più possibilità c’è per le due potenze animate da ambizioni espansioniste di allargare il fronte dei paesi decisi a porre fine all’egemonia atlantico- statunitense.
Al contempo, rende disperante la situazione il fatto che Israele e Hamas non sono in lotta tenendo al centro un contenzioso componibile, ma per una questione non negoziabile.
Hamas non richiede una diversa sistemazione dei territori sotto il suo controllo. Chiede la liquidazione dello Stato di Israele e la letterale eliminazione del popolo ebraico. Da parte sua, Israele non lotta solo per difendere il suo diritto all’esistenza come Stato, ma è deciso a sradicare una forza che vuole far scomparire dalla faccia della terra la presenza anche di un solo ebreo.
È un tipico worst case scenario, lo scenario peggiore. Il 7 ottobre ha portato alla ribalta un conflitto apparentemente sopito, segnando una cesura nella pur tragica, irrisolta questione palestinese. Prima, bene o male, il nodo era definire i confini di eventuali due Stati per due popoli. Oggi è in corso una guerra che non prevede armistizi e tanto meno una pace, se non dopo l’eliminazione del nemico.
Israele non è disposto a chiudere le ostilità prima di aver distrutto un nemico determinato a far terra bruciata dello Stato ebraico. Ma neppure Hamas ha alcuna intenzione di desistere dalla missione che si è dato di cancellare letteralmente la stirpe ebraica. Per ottenere questo, punta ad allargare il più possibile il fronte degli stati arabi e delle organizzazioni terroristiche nemiche di Israele in modo da rimediare alla propria inferiorità militare e investire il mondo intero della questione palestinese.
Serve a poco – si diceva in apertura - cercare di favorire la causa di uno dei due nemici in guerra tentando di individuare chi di loro ha posto le condizioni dell’incendio o di chi sta subendo il peggior danno in termine di vittime civili. Non porta da nessuna parte nemmeno contrapporre le ragioni degli israeliani, decisissimi a difendere il diritto ad avere un proprio Stato alle pur altrettanto sacrosante ragioni dei palestinesi ad avere un loro Stato.
E questo, peraltro, non sembra certo il vero fine di Hamas.
Sarà anche poco consolante redigere un quadro così pessimistico dell’attuale stato del conflitto israelo-palestinese.
Ma se si vuole evitare di impantanare anche le migliori intenzioni in un nulla di fatto, è meglio guardare la realtà in faccia. Tutto il resto viene dopo.
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