Dal “non trovo lavoro” al “non trovo lavoratori”. Ecco, in estrema sintesi, come sta cambiando una delle principali sfide economiche che oggi l’Italia ha davanti a sé.
Una mutazione radicale che contiene almeno una buona notizia: dal giugno 2023 al giugno 2024 - secondo gli ultimi dati Istat - gli occupati nel nostro Paese sono aumentati di 337mila unità, arrivando alla soglia record di 23 milioni 949mila e il tasso di disoccupazione è sceso al 7% dopo che nel post pandemia aveva superato il 10%. In queste statistiche, a costo di qualche semplificazione, è racchiuso il motivo per cui sempre meno italiani sono costretti a dire “non trovo lavoro”. Dov’è la cattiva notizia, allora? Dell’andamento stagnante dei salari medi del nostro Paese si è già detto più volte (anche se spesso se ne dimentica la ragione di fondo, cioè l’andamento altrettanto stagnante della produttività e non invece la carenza di chissà quale obbligo legale). Stavolta ci vorremmo concentrare su un altro problema emergente, per alcuni versi legato al nodo degli stipendi, quello del numero crescente di imprenditori che è costretto a dire: “Non trovo lavoratori”.
L’ultimo allarme, in ordine di tempo, lo ha lanciato ieri il Centro studi di Confindustria con la sua indagine annuale sul lavoro. Tra le imprese che avevano in corso ricerche di personale al momento del sondaggio di Viale dell’Astronomia, oltre due su tre (il 69,8%) ha affermato di riscontrare «significative difficoltà di reperimento di personale nelle politiche di assunzione». La quota di imprese che dichiarano difficoltà, si legge nello studio, è più elevata nell’industria (73,5%) che nei servizi (65%), e cresce con la dimensione aziendale. Le problematiche più gravi emergono per le competenze tecniche (segnalate dal 69,2% delle imprese con difficoltà di reperimento) e per quelle manuali (47,2%), meno per le competenze trasversali e manageriali. Nemmeno una settimana fa, un allarme simile era arrivato da un altro settore del mondo produttivo: «La mancanza di personale è il principale ostacolo alla crescita delle cooperative, per una su due è un problema ormai strutturale a cui non sembra esserci rimedio – ha scandito Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative –. Da 24 mesi la scarsità di manodopera rappresenta il principale fattore che limita la competitività. Oltre 34.500 lavoratori introvabili, erano 30.000 sei mesi fa». Gli addetti ai lavori lo chiamano “mismatch”: le competenze richieste dal mercato, in troppi casi, sono diverse da quelle effettivamente offerte dai lavoratori. Nel breve periodo, l’unica soluzione è nelle mani delle imprese che non a caso diventano sempre più spesso «formatrici» dei loro stessi lavoratori o dei candidati a diventare tali. Nel 2023, secondo Confindustria, «ben oltre la metà delle imprese ha offerto ai propri dipendenti (non dirigenti) almeno un’attività di formazione diversa da quella obbligatoria». Quota di imprese che sale al 66% tra quelle che hanno riscontrato una qualche difficoltà di reperimento delle competenze.Nel medio periodo, diciamo per i prossimi 5-10 anni, lo sviluppo delle competenze dovrebbe diventare dunque la priorità degli esecutivi nazionali e degli amministratori locali di ogni colore politico.
L’attuale governo, anche grazie al Pnrr, ha approvato un nuovo tassello della riforma dell’istruzione con il modello della «filiera tecnologico-professionale». Ora si tratta di incentivare in ogni modo, con le poche risorse fiscali a disposizione, le aziende che – in collaborazione con il settore pubblico o meno – investono per colmare questo divario. Nel lungo periodo, cioè da qui al prossimo ventennio, a queste azioni va aggiunta una politica bipartisan per la natalità. Perché sempre più settori economici, oltre che con una grave penuria di competenze, fanno già i conti con una angosciante penuria di persone.
© RIPRODUZIONE RISERVATA