Ogni tanto cerchiamo di essere migliori di quello che siamo. Ci proviamo. Ci proviamo sul serio. Aspettiamo il momento giusto, quello che sbalza i cuori, smuove le coscienze, inumidisce gli occhi e tentiamo di tirarci fuori dalla fanghiglia nella quale restiamo avvoltolati lungo tutta la nostra grigia esistenza. Ma è dura. È dura davvero essere diversi da quello che si è.
Il rogo della cattedrale di Notre-Dame ha rappresentato l’ultima occasione persa. Quanto ci siamo emozionati, quanto abbiamo trepidato, quanto ci siamo martoriati nel veder andare in fumo quella chiesa meravigliosa nella più meravigliosa delle città meravigliose. E palpiti e lacrime e avvilimenti e alti lai e interrogativi angosciosi e come è possibile e perché proprio a lei e metafore e simbologie e iperboli e aggettivi e superlativi e profonde riflessioni sulla caducità dell’essere e spietate analisi sulla friabilità delle cose e proustiane considerazioni sul tempo che tutto tritura, tutto sminuzza e tutto riduce in cenere e passi biblici e profezie celestine e ombre oscure di apocalissi e dolenti congetture sulla cristianità sotto attacco, sulla spiritualità diventata polvere e sul contrappasso veterotestamentario contro questo Occidente materialista, edonista, laicista e nichilista che lascia distruggere per inedia, per incompetenza, per sciatteria il più perfetto dei simboli della fede e della cultura giudaicocristiana e bla bla bla.
E all’inizio è tutto sincero, davvero genuino, come se tutti quanti ci sforzassimo di sentirci fratelli nel dolore, una comunità saggia che condivide le tragedie per essere subito pronta a ricostruire, la memoria che si fa tenacia e che supera le inimicizie e le meschinità delle piccole polemiche della piccola politica politicante, noi europei, noi cristiani, noi cattolici, noi tutti quanti figli di Cartesio, di Pascal e di Napoleone, noi e i nostri vecchi che ricordano, noi e i nostri adulti che operano, noi e i nostri giovani che sognano e cambiano le cose, noi italiani mai così uniti tra di noi e mai così amici dei nostri cugini francesi e tutto il resto delle esperienze personali che, e qui iniziano i guai, a noi sembrano dirimenti - “io, che studiavo alla Sorbona!”, “io, che lì ho conosciuto mia moglie!!”, “io, che lì ho visto quel concerto!!!”, “”io, che lì ho fatto quella vacanza indimenticabile!!!!” - e che invece, diciamoci la verità, andrebbero tutte quante chiosate con un gigantesco, pantagruelico e definitivo “chissenefrega!”. Perché basta un attimo e il dolore diventa retorica, la partecipazione declina nel voyerismo, la solidarietà degrada nello stucchevole e dai e dai e Tg dopo Tg e paginate di giornali dopo paginate di giornali e inviati scarmigliati dopo inviati scarmigliati e filosofi e storici e teologi e opinionisti tutti lì a pontificare, a catoneggiare, a vaticinare, a trombonare sulle magnifiche sorti e progressive della cattedrale che rifaremo più bella e più forte che pria fino a quando, a un certo punto, arriva la svolta che nelle redazioni - e nel nostro foro interiore - determina la “morte” di una notizia: “Ancora l’incendio di Notre-Dame? E che palle…”.
Quello è il punto di rottura. Da lì in poi è finita. E la dimostrazione plastica si è avuta solo ventiquattro ore dopo quando, improvvisamente, è crollata un’altra cattedrale, per noi molto più importante - anche se può apparire blasfemo, ma non lo è - di quella francese. Perché un nanosecondo dopo la fine della partita tra Juventus e Ajax si è scatenato l’inferno. E noi, noi esseri umani, siamo ritornati quello che siamo, quello che siamo sempre stati e quello che saremo per sempre. Di tutto, è successo di tutto dopo quel triplice fischio. Nulla, nulla davvero ci è stato risparmiato e proprio da noi stessi che fino a un minuto prima avevamo sparso sentimenti di amore cosmico, di solidarietà umanistica e di pensieri edificanti sulla cattedrale rasa al suolo. Niente da fare: tutte balle. Adesso sì che mostravamo la verità. Un sabba. Un rave party. Un’orgia dionisiaca e demoniaca. Urla. Insulti. Fischi. Petardi. Tricche tracche. Ululati. Rutti. Schiaffi del soldato. Clacsonate. E post e tweet e meme e tutorial e fotomontaggi e video e barzellette e gatti morti giù dal balcone e arbitri italiani merde e pali con la pece e le piume d’oca e lampioni di piazzale Loreto su cui attaccare per i piedini d’oro il cadavere di Ronaldo e soci e su cui infierire e maramaldeggiare e rifilare il calcio dell’asino e caccia allo juventino con tecniche da Ku Klux Klan e tutto il resto dello stoltiloquio nel quale l’ira delle genti si è riversata sul dittatore sconfitto, umiliato e offeso.
Non c’è niente da fare. Nessun senso di sportività, anche se quella è comunque una grande squadra. Nessun rispetto del valore, anche se hanno vinto stradominando otto scudetti e giocato due finali di Champions. Nessuna cognizione del valore dei suoi tanti campioni, che tali erano prima e tali restano anche adesso. Nessun ecumenismo. Nessun buonsenso. Nessuna solidarietà. Niente. Niente di niente. Più sono forti e più godi a vederli strisciare nella polvere. Più sono vincenti e più godi delle loro rare sconfitte. Più sono competitivi e più godi nell’osservarli soccombere. E’ questo quello che siamo, questo, non certo quello che abbiamo cercato di camuffare durante il rogo di Notre-Dame, noi meschini e infami e infingardi e verdognoli e vigliacchi e invidiosi e sempre ben nascosti nella massa, nel branco, nel gregge, subdoli adulatori del potere, ma ribelli anarcoidi e maramaldi alla sua prima crepa. Tutto qui. Dopo duemila anni di civiltà è sempre il richiamo della foresta quello che vince, perché questa la è la natura dell’uomo, bellezza, e neppure una cattedrale può farci niente.
Ps: L’ultima squadra italiana a vincerela Champions - primo tassello di un mitologico Triplete - non schierava in attacco il Dio del Pallone, ma l’ex centravanti del Genoa. E pure questa è un’esemplare, spietata e sanguinosa pedagogia.
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