La lezione di San Rusca, estare sempre fedeli ai messaggi del Vangelo

Il ricordo Messa celebrata in Collegiata da don Orsi «Ci insegna che non bisogna mai anteporre niente a Dio Ha agito per un bene superiore offrendo la sua vita »

«Pastore fedele, che ha seguito Gesù fino a dare la propria vita, seguendo il suo insegnamento».

È l’esempio che ha ci ha donato il beato Nicolò Rusca, già arciprete di Sondrio in un momento particolarmente travagliato, poco tempo prima del Sacro Macello, una delle più note pagine di storia locale.

Un esempio

Dal 2013, anno della sua beatificazione, a Sondrio in maniera particolare – e non potrebbe essere altrimenti –, e in tutta la diocesi il 4 settembre si celebra la memoria liturgica di questa figura esemplare, testimone di Cristo sino alla fine: non a caso la ricorrenza coincide con il giorno della morte, avvenuta nel 1618 in quel di Thusis, nei Grigioni, dopo giorni di torture.

Presbitero e martire, «nella sua vita rivediamo pienamente la radicalità della fede a cui ci invita Gesù nel vangelo», ha commentato don Francesco Orsi che ieri mattina ha presieduto la solenne Eucarestia in Collegiata. Ultimo sondriese, per ora, a essere stato ordinato sacerdote diocesano, non è certo un segreto la sua venerazione per il beato Rusca, figura lontana nel tempo rispetto a noi – sono passati, infatti, 404 anni dalla morte – ma che «rimane sempre di grande attualità. Come, del resto, tutti i santi».

La radicalità evangelica, si diceva, «consiste nell’anteporre nulla a Cristo e nel portare a compimento ciò a cui siamo stati chiamati: in un mondo in cui, quando si è stufi, non si conclude niente, Gesù ci insegna a impegnarci per un bene superiore».

E non è certo una novità, «se pensiamo alle ultime parole in croce: “Tutto è compiuto”. Non è facile, certo, ma è l’unico modo per far sbocciare il dono che ognuno di noi ha».

Il beato «è stato pastore per il suo popolo e ha terminato la propria esistenza dando la vita per il gregge a lui affidato. Ha iniziato con la predicazione e l’insegnamento e ha fatto della sua morte la testimonianza più grande», ha aggiunto il giovane sacerdote durante l’omelia.

Fino al’ultimo

«Percependo il clima di difficoltà, Nicolò Rusca qualche tempo prima andò a salutare i parenti per l’ultima volta in Canton Ticino. Poteva rimanere là, mettendosi al sicuro, invece non ha voluto abbandonare il suo gregge. Fino alla fine».

Don Francesco è rimasto particolarmente colpito dalle parole di Gesù secondo cui «“colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Così fece anche il nostro beato che, per puro amore di Cristo, abbracciò la sua croce, ovvero il mulo sotto cui percorse tutta la Valmalenco e il passo del Muretto, fino ad arrivare in Svizzera, ma anche le percosse che ricevette, gli insulti».

Davvero «la vita dei santi è lettura vera del vangelo: come non vedere nel beato Nicolò, ucciso dagli aguzzini protestanti, questa testimonianza così forte».

La testimonianza del Rusca «non si esaurisce nelle letture proclamate – ha aggiunto –: egli, infatti, viveva in un clima di grande tensione geopolitica, dove varie potenze mondiali si contendevano pezzi di terra strategici. Sto parlando di quattrocento anni fa: nulla è cambiato». In tale contesto, eppure, «questo grande sacerdote ha radunato sacerdoti e fedeli laici che testimoniassero la fede cattolica e la bellezza di una vita spesa per il bene».

Per questo, «chiediamo al beato Nicolò di poter essere radicali nella fede e di saper portare a compimento l’opera che Dio ci affida», ha concluso don Orsi. «È questo, in fondo, il “bel rischio della fede”».

© RIPRODUZIONE RISERVATA