Cronaca / Sondrio e cintura
Giovedì 21 Gennaio 2016
La città perde i pezzi. Casa circondariale
“targata” Bergamo
Si studia un nuovo accorpamento con il rischio di avere una gestione senza direttore. Progetti di apertura alla città in forse e tante incognite.
Nei mesi scorsi sembrava che la Prefettura dovesse essere accorpata a quella di Bergamo. Archiviato il progetto del ministero dell’Interno, ora arriva quello della Giustizia a proporre quella che dovrebbe essere un’altra ipotesi per ridurre la spesa pubblica. Un altro accorpamento con Bergamo: la casa circondariale di via Caimi, secondo uno schema di decreto predisposto dal capo di gabinetto del dicastero romano la vigilia dello scorso Natale, dovrebbe unirsi a quella del capoluogo orobico.
Pare di immaginarli certi funzionari dei ministeri, che nella capitale stanno ad osservare la nostra remota provincia periferica per pensare ad accorpamenti coi territori vicini. Il tutto guardando una cartina rigorosamente politica. Perché, se almeno la usassero geografica, privilegerebbero le continuità territoriali ed eviterebbero di porre un arco di montagne tra il lavoro di un direttore di due case circondariali che, nel caso in cui il decreto fosse approvato, si troverebbe ad avere la responsabilità di oltre 500 detenuti, circa il 5 per cento nell’istituto di via Caimi e il rimanente a Bergamo.
Lo sguardo ai numeri dei detenuti però non rende l’idea di quelli che sarebbero gli effetti di una riforma che non sembra tener conto delle riflessioni maturate con gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e nemmeno di quanto seguito alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel gennaio di tre anni fa, la cosiddetta “Sentenza Torreggiani”, che ha giudicato le condizioni dei detenuti fino a quel momento in diverse carceri italiane una violazione degli standard minimi di vivibilità che determina una situazione di vita degradante. Se, infatti, nella casa circondariale di via Caimi non fosse presente con una certa frequenza un direttore, la gestione dei detenuti sarebbe affidata in via quasi esclusiva al personale di polizia penitenziaria. Questo, di fatto assolvendo correttamente al proprio compito, si troverebbe a preoccuparsi della sorveglianza più che di progetti e iniziative come quelle che, negli ultimi mesi, abbiamo imparato a conoscere da quando alla guida dell’istituto è giunta Stefania Mussio. Attività che, rendendo riabilitativo e non solo punitivo il periodo della detenzione, permettono di ridurre la percentuale di recidiva.
Se venisse attuata la riforma, le carceri rischierebbero di «essere gestite nel peggiore dei modi - ha affermato nei giorni scorsi Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia -, cioè con direttori che, avendo più sedi e nessun riconoscimento, non appaiono in grado di seguire situazioni delicate e complesse, come sono di fatto gli istituti di pena, né di garantire il rispetto della dignità delle persone che ci vivono o ci lavorano dentro».
Inoltre, si contravverrebbe alle raccomandazioni del Comitato dei ministri agli Stati membri del Consiglio d’Europa sulle Regole penitenziarie europee, che nel 2006, stabilivano che «ogni istituto deve avere un direttore» e che questo «deve essere incaricato a tempo pieno e deve dedicare tutto il suo tempo ai propri compiti istituzionali».
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