Visto che tutti parlano di "election day" e che sembra sia stata fatta questa scelta che ci farà risparmiare cento milioni, perché non lo chiamiamo, come giustamente dice la traduzione italiana, giorno delle elezioni? Così si risparmierebbero, oltre agli euro, anche la scopiazzatura.
Luca Boschini
Gl'inglesismi incontrano felicemente il gusto degl'italiani. Che ne hanno poco per la lingua madre. Lingua antica, melodica, fascinosa. Dolcissima, varia, acculturata. Precisa, elegante, puntigliosa. Una lingua che gli altri c'invidiano, ma faticano ad impararla perché complessa, ricercata, ostica. Non richiede all'apprendimento processi mentali semplificati, bensì il contrario: uno studio intenso, segnato da grandi difficoltà. Ecco, di questa lingua di cui dovremmo essere orgogliosi, noi siamo diffidenti. Crediamo non sia abbastanza moderna, agile, espressiva. Che non si presti a sintesi efficaci. Sicché adoperiamo altri strumenti linguistici per dare voce a ciò che pensiamo e progettiamo, con ciò confessando un imbarazzante complesso d'inferiorità, e uno scoperto provincialismo. Il guaio è che non si tratta di passeggere subordinazioni a un riverito modello altrui, ma d'una costante genuflessione al conformismo mediocre. Se nel mondo anglosassone si usa dire election day, noi ci adeguiamo pur non avendo nulla, ma proprio nulla, degli anglosassoni. Ora è vero che i tempi cambiano, le mode pure, e il linguaggio idem, con tensione generale verso la globalizzazione. Però rinunziare troppo spesso all'identità linguistica non è solo un errore; è un delitto contro la propria anima popolare.
Max Lodi
© RIPRODUZIONE RISERVATA