Dall’immenso Vittorio Gassman (“moves”, “muvess”, mouves”) che tenta senza successo di imparare l’accento milanese per sviare i sospetti sulla rapina al furgone del montepremi del Totocalcio nell’”Audace colpo dei soliti ignoti”, ai Camerieri disperati ed emarginati del bel omonimo film di Leone Pompucci incollati alla radio con il “tredici” a un tiro di pallone, all’ingenua commedia degli anni ’50 “Se vincessi 100 milioni”, ovviamente di lire, con Tino Scotti e Carlo Campanini, a Diego Abatantuono e Lino Banfi, alle canzoni, celebre la “1X, X2, 1X, 1X ecc…, la schedina è stata qualcosa di più di un gioco. L’invenzione di Massimo Della Pergola per rimpinguare le esangui casse dello sport post bellico, ha rappresentato un fenomeno di costume italiano, anzi, a volte, l’Italia stessa. Il nostro sogno di riscatto individuale e collettivo in un paese uscito più che a brandelli dalla tragedia del secondo conflitto mondiale. Una speranza passata poi indenne per il boom, la congiuntura, i rabbiosi e cupi anni ’70, gli ’80 degli yuppies con l’orologio sopra il polsino per imitare l’Avvocato, i tellurici ’90 e l’avvento del nuovo millennio che è andata poi piano piano a spegnersi. Fino a oggi con un emendamento alla tormentata legge di bilancio che ci avvisa che è il Totocalcio, o meglio quel che ne resta, andrà in pensione. Perché ormai il suo lavoro lo fanno altri: i mille nuovi concorsi da grattare e indovinare che difficilmente potranno ispirare la fantasia popolare come quel pezzo di carta con le tredici partite della domenica (ai tempi pensate si giocava in un solo giorno e tutti alla stessa ora) e, di fianco, le caselle da riempire prima di consegnare la speranza al ricevitore che ci attaccava sopra una sorta di marca per attestare la giocata. Anche questo gesto fa capolino in un altro grande film “Amici Miei” , con il barista Necchi, Duilio Del Prete che simulava i postumi di un incidente per schivare l’incombenza. Certo, a mettere in crisi la tradizione della schedina è stato anche lo “spezzatino” delle partite di calcio che ha tolto quel pathos domenicale del restare attaccati alla radio per seguire in diretta gli sviluppi del sogno nella speranza che il Cesena segnasse contro la Sampdoria perché almeno si portava a casa un dodici. Sognare a rate, un po’ il venerdì, un po’ il sabato e magari anche il lunedì, ammettiamolo, non è la stessa cosa.
E non un caso che il Totocalcio sia nato assieme a una nuova Italia, nell’anno del referendum che sancì la lucente svolta repubblicana e che esca di scena mentre un’altra Italia dai contorni indefiniti e oscuri sembra affacciarsi all’orizzonte.
E neppure che quell’Italia, povera, isolata e disperata che non sapeva dove voleva andare ma ci voleva comunque arrivare fosse capace ancora di sognare e di sperare: due aspetti perfettamente propri della schedina. Invece l’Italia di oggi, ce lo rivelato anche il Cenis, appare cupa, livida e senza aspettative. In grado di produrre sonni senza sogni o con brevi e impalpabili momenti onirici come le grattate o la fredda sestina del Superenalotto.
Ciao Totocalcio e grazie. Senza di te non ci sarebbero stati le Olimpiadi di Roma, uno dei simboli degli anni più felici del nostro secolo breve e molte carriere sportive avrebbero conosciuto altre storie. Tanti italiani non avrebbero svoltato le loro esistenze grazie alle vincite e altri, ancora più numerosi, sarebbero stati privati del sapore di quei momenti di trepidazione nei bar con gli amici a decidere se Bologna-Napoli valeva lo “spreco” di una tripla o se si poteva azzardare una X per Juventus-Foggia che ti faceva salire il valore del “tredici”. Perché il Totocalcio richiedeva anche competenza, audacia, gusto del rischio dell’azzardo. C’era una vita vera dietro la schedina, che certo non si può ritrovare negli asettici attuali surrogati. Ci dicono che ora arriverà qualcos’altro, ma non potrà essere la stessa cosa. Almeno finché l’Italia non ritroverà la voglia e la capacità di sognare e di realizzare i sogni. “Muuves” Italia.
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