
Succede quasi sempre di domenica o in un giorno di festa, succede quando il dovere lascia il posto al piacere e la fatica della settimana si scioglie per passare rapidamente nella memoria remota. Allora sale l’ansia di libertà, il desiderio pulsante di vivere per quello che si ama, costretto altrimenti dai vincoli del lavoro, della famiglia, delle mille occupazioni quotidiane. La passione riemerge con una forza difficile da domare, perché la modernità lascia pochissimo spazio alla fantasia, e quando questa esplode è difficile da circoscrivere e incanalare nella razionalità.
Tre croci in neppure quindici giorni: il quattordicenne Mattia Fagioli il 12 aprile, un quarantacinquenne di Inverigo il giorno di Pasqua, e ieri un altro centauro, valtellinese, di 55 anni, ha lasciato la vita nel terribile impatto con un’automobile. La moto diventa uno strumento di morte e non più un mezzo per divertirsi, scoprire strade e paesi con il gusto un po’ pionieristico che abbiamo quando abbandoniamo la scatola di lamiera guidata ogni giorno e saliamo in sella a un cavallo, una bicicletta o a una moto.
«Se fai le vacanze in motocicletta le cose assumono un aspetto completamente diverso. In macchina sei sempre in un abitacolo; ci sei abituato e non ti rendi conto che tutto quello che vedi da quel finestrino non è che una dose supplementare di TV. Sei un osservatore passivo e il paesaggio ti scorre accanto noiosissimo dentro una cornice. In moto la cornice non c’è più», scrive Robert M. Pirsig nel suo “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”.
«Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente. È incredibile quel cemento che sibila a dieci centimetri dal tuo piede, lo stesso su cui cammini, ed è proprio lì, così sfuocato eppure così vicino che col piede puoi toccarlo quando vuoi – un’esperienza che non si allontana mai dalla coscienza immediata».
Chiunque sia stato centauro, sa che basta innestare la prima per entrare in una dimensione quasi onirica, in cui spazio e tempo non sono più gli stessi ma mutano non appena si dà gas, si affronta una salita o si infila un rettilineo. La moto diventa un prolungamento del corpo e il motore moltiplica la sensazione di potere della mente, così a volte si abbattono le regole quasi senza rendersene conto, per la volontà di rischiare, di mettersi alla prova, di chiedere al mezzo che ci conduce di mostrare ciò che vale, quali ne siano i limiti.
Le strade di oggi non sono quelle libere del dopoguerra, quando girare in motocicletta era una necessità e solo in parte un piacere, una fuga diversa dal quotidiano perché allora arrivare a possedere una due ruote –non certo i bolidi di oggi- era la fine di molti sacrifici e la gita della domenica un modo soltanto diverso di utilizzarla.
Ora il pericolo è ovunque, in macchina siamo minacciati da ogni sorta di distrazione, dal cellulare che suona, al bambino che piange, ai lavori in corso, alla radio e al navigatore parlante, la concentrazione, già minata dalla vita frenetica è sempre minore.
«La fretta è di per sé un atteggiamento velenoso da ventesimo secolo, che tradisce indifferenza e impazienza», annota sempre Pirsig. In moto questo ci spinge a sorpassare le code, a zigzagare tra un’automobile e l’altra, ad accelerare troppo quando pensiamo che la strada sia libera. La velocità e il rombo del motore inebriano come una droga, si cercano traguardi inesistenti nella realtà e, come per una malattia grave, non pensiamo che un incidente possa capitare proprio a noi. Ed è allora che si parla di destino o di tragica fatalità.
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