Interrogarsi sulle prospettive future della nostra città e del suo territorio è un esercizio che negli ultimi tempi e sempre con maggiore frequenza abbiamo registrato, indice di una incertezza e di una opacità che investono settori sempre più vasti dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione e di quella parte più avvertita della cittadinanza che assiste con ragionevole preoccupazione a quel processo di marginalizzazione che da molti anni ormai ha colpito Lecco e il suo tessuto economico e industriale. Lecco non è più da decenni “la città del ferro”, anche se molte piccole e medie industrie del settore continuano meritoriamente la loro attività con determinazione e, è giusto dirlo, con coraggio.
La trasformazione subitanea della fisionomia industriale della città negli anni ’80 del secolo scorso, con la dismissione delle imprese storiche come la Badoni, la Forni Impianti, il Caleotto, la S.A.E. ossia di aziende che davano lavoro a migliaia di lavoratori (le ormai mitiche “tute blu” entrate nell’immaginario collettivo) ha comportato l’inevitabile perdita di una identità che affondava le sue radici secolari nell’humus più autentico della laboriosità lecchese, gente pratica, intraprendente, ingegnosa e capace di mettere in comune le forze, come fece alla fine dell’Ottocento dando vita alle Acciaierie del Caleotto. Non si stravolge però un tessuto economico e sociale senza che questo comporti un “vulnus” non facilmente sanabile. Alla scomparsa delle industrie, poi, è seguita la invereconda speculazione edilizia sulle aree che una accorta e virtuosa politica degli amministratori avrebbe invece dovuto destinare al ridisegno della città, utilizzandole per soddisfare le nuove esigenze che già allora venivano profilandosi, come gli uffici provinciali, la Prefettura, la sede del Politecnico, l’Ospedale, senza dimenticare il verde pubblico. Ma questa straordinaria occasione fu colpevolmente disattesa. La città aspira ora giustamente a una dimensione territoriale più ampia, includendo nella sua giurisdizione quei comuni che sono obiettivamente parte integrante di una vasta conurbazione, quella “grande Lecco” di cui si parla da tempo ma che sembra assai difficile da realizzare. La sensazione è di trovarci in una fase di stallo, sospesi fra un passato di cui siamo giustamente orgogliosi e un futuro di cui fatichiamo a intravedere la fisionomia, un futuro nel quale ci ostiniamo a scorgere la chimerica opzione del turismo, incuranti della considerazione che l’accoglienza è parte di una abitudine estranea alla nostra storia, è il risultato di una sedimentazione culturale attraverso le generazioni, e del resto basta considerare lo stato miserando in cui versa l’arredo urbano, la manutenzione del verde, la pur splendida passeggiata a lago senza un fiore, la trascuratezza dei giardini al monumento ai Caduti o delle aiuole davanti al monumento a Stoppani, la desolazione della principale piazza del centro storico per renderci conto di quanto velleitaria e improbabile sia la vocazione turistica della nostra città.
Così come la cimiteriale distesa di granito che riveste la piazza Cermenati, senza un’aiuola, una bordura, senza sedute, ribadisce il disinteresse nei confronti della valorizzazione di ciò che la città può vantare al fine di favorire l’accoglienza. La ventilata soppressione delle province, che forse risorgeranno dalle loro ceneri come moderne fenici, è un altro colpo inferto all’autonomia del territorio che rischia di non avere più voce in capitolo, o di essere accorpato in quella improbabile “vasta area” di cui si parla in modo alquanto vago da molto tempo e che probabilmente è destinata a non vedere mai la luce. Anche il fondamentale nodo dei collegamenti pesa, e non poco, sullo sviluppo del territorio; la Lecco Bergamo avanza con una lentezza inaccettabile, l’aeroporto della Malpensa non si raggiunge facilmente, la Pedemontana corre lontano. Un quadro obiettivamente non lusinghiero che non deve però consegnare Lecco e il suo territorio all’insignificanza. Se le risorse economiche latitano, se il futuro di questa nostra città e del suo hinterland ci appare confuso, dobbiamo confidare nell’intraprendenza della nostra gente, nella sua voglia di fare, nella sua capacità di adattarsi ai tempi che cambiano, come ha sempre fatto con caparbia volontà e indomito spirito di sacrificio.
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