Gli Oasis, l’eterna adolescenza e quel concerto a Milano per mille persone

Where were you while we were getting high? Dov’eravate voi, quando noi stavamo alle stelle? Già, dov’eravate voi? Iniziamo a capire dove siamo, ora. I fratelli Liam e Noel Gallagher - cresciuti a dischi, risse, calcio, droga e sussidi nelle periferie di Manchester - annunciano la reunion degli Oasis e la mia generazione, eterna prigioniera della sua adolescenza, impazzisce mentre l’estate sta finendo.

Dov’eravate voi, quando noi eravamo alle stelle? A metà degli anni Novanta gli Oasis sono stati l’ultima storia vera nella grande truffa del rock’n’roll. Una band scalcagnata nata fra due fratelli e tre amici che, dalle cantine della città più operaia d’Inghilterra, riesce a scalare le classifiche internazionali di vendita. Un disco memorabile quello di esordio, con tutta la forza e la poetica di chi cerca il riscatto sociale. Poi uno indovinato, il secondo, che grazie a due hit planetarie (Wonderwall e Don’t look back in anger) li consegna alla storia e tutto il resto della carriera trascorso a distruggere disco dopo disco quanto - poco o tanto – hanno costruito.

Trent’anni dopo, gli Oasis - anzi, i fratelli Gallagher - si riuniscono. Lo fanno per soldi - si parla di decine di milioni di euro a testa - senza i tre amici della band originaria, persi per strada.

Ma dov’eravate quando noi eravamo alle stelle? E’ il 3 Luglio 1995. Ho compiuto quindici anni da pochi giorni. Come regalo per la promozione in quinta ginnasio, nonostante i due debiti in matematica e francese, strappo il biglietto per il mio primo concerto. Con il mio amico batterista Miguel, scortati da mio padre, varchiamo le porte del Rolling stone di Milano. Dovevano suonare al Palalido, ma nell’estate 1995, gli Oasis sono ancora troppo esotici per il pubblico italiano.

Ci saranno con noi, sì e no, mille persone. Apre il concerto un gruppo brianzolo, i Bluvertigo. Le ragazze in prima fila osannano il bassista/cantante, un certo Morgan.

Poi salgono le stelle della serata, gli Oasis, con il loro muro di suono e arroganza. Gli amplificatori Orange bardati con le sciarpe del Manchester city. Il logo della band come sfondo e la Union jack sulla grancassa.

Liam Gallagher canta una dopo l’altra le canzoni del primo album senza degnare di uno sguardo né il pubblico né il fratello che quelle canzoni le ha scritte e che si trova al suo fianco. Gli altri della band – incluso il nuovo batterista, la favola del gruppo di amici era già finita - suonano impalati come manichini. «Do you like the Beatles?», unica frase pronunciata in tutto il concerto prima del finale con una versione incendiaria di “I am the warlus”, la più stralunata canzone dei quattro di Liverpool.

E dov’eravate voi, allora, quando noi eravamo alle stelle? Noi, sì, perché io c’ero. E quella sera gli Oasis mi hanno trascinato sulla loro – o forse nostra - cresta dell’onda. Li ho visti nel punto più alto della loro carriera, prima che finissero sulla battigia, lasciassero un segno sulla sabbia (e nelle nostre vite) per poi ritirarsi di nuovo nel mare.

Qualche giorno fa, sentendo alla radio in auto la notizia della loro reunion, mio figlio mi ha chiesto: “Papà, ci andiamo, vero?”. Come ogni padre, non vorrei deluderlo. A trent’anni di distanza, i Gallagher saranno in grado di emozionare ancora o ci regaleranno uno sbiadito ricordo e pure a caro prezzo? Sorrido, pensando all’entusiasmo di quella sera di luglio e a come il quindicenne al volante sia invecchiato in un attimo, ma non invano. We’re gonna live forever.

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